(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 19 febbraio 2023)

Il testo per la predicazione che ci propone il lezionario “Un giorno, una Parola” per questa domenica “Esto Mihi” (Sii per me una forte rocca! - Salmo 31,2) è tratta dalla prima epistola di Paolo ai Corinzi, capitolo 13, versetti da 1 a 13.

1 Corinzi 13,1-13

Care sorelle, cari fratelli,

abbiamo oggi di fronte una delle più belle composizioni di Paolo, l’inno alla carità, meglio all’amore. In questi versetti è racchiuso tutto il senso del cristianesimo.

Vorrei fare però subito un inciso, che ci può dare anche il senso di quello che diremo nel corso di questa riflessione.

Siamo ancora nella settimana che ci ricorda un evento straordinario della nostra storia. Il 17 febbraio del 1848 Re Carlo Alberto concedeva a noi valdesi, con le cosiddette “lettere patenti”, le libertà civili e politiche. Dopo circa un mese le stesse libertà furono concesse ad un’altra minoranza: gli ebrei. Non fu però ancora libertà religiosa. 

La situazione odierna non è certo paragonabile a quella della metà dell’800. Certamente godiamo della possibilità di professare liberamente il nostro culto, di esercitare i nostri diritti anche religiosi, ma enormi passi avanti andrebbero fatti per realizzare la piena libertà religiosa tra tutte le fedi. Come sappiamo in Italia c’è una forte sperequazione a favore di una determinata confessione religiosa, pensiamo (solo per fare un esempio) al campo della pubblica istruzione, e solo una equilibrata legge sulla libertà religiosa, pienamente rispettosa dei principi sanciti nella nostra Costituzione Repubblicana, potrebbe sanare i privilegi e garantire finalmente una condizione di reale e sostanziale parità.

Proprio queste considerazioni ci consentono di trovare l’aggancio con il brano della prima lettera ai Corinzi che abbiamo appena letto: “l’amore è (voce del verbo essere) libertà” e “la libertà è (sempre voce del verbo essere) amore”. Potremmo anche dire che non c’è libertà senza amore e che non c’è amore senza libertà.

Scorrendo il testo di Paolo il legame è evidente, se si guarda alle qualità dell’amore elencate dall’apostolo non c’è dubbio che sono le stesse che riguardano la libertà.

L’amore ci rende liberi e la libertà ci consente di amare senza alcuna costrizione.

Paolo, poi, ci offre una chiave eccezionale per comprendere questo legame profondo tra amore e libertà. La troviamo al capitolo 3 del versetto 17 della seconda Corinzi: “Ora il Signore è lo Spirito; e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà”.

Spirito del Signore, amore, libertà hanno uno svolgimento circolare: c’è lo Spirito del Signore, poi ci sono l’amore e la libertà e tutte e tre insieme ci conducono, se li accogliamo, in una dimensione sublime, che è quella della perfezione donataci da Cristo con la sua venuta sulla terra, la sua morte e la sua resurrezione, nel suo amore senza limiti.

Mia mamma spesso mi ripete che mio nonno quando aveva di fronte dei problemi quasi insolubili esclamava: “ci vorrebbe la mente di Paolo”.

Ecco la mente di Paolo ha davvero fatto il suo grande lavoro, ma anche la sua mente non era qualcosa che vagava per i fatti suoi, perché era a sua volta ancorata allo Spirito del Signore.

Tutto, quindi, parte dallo Spirito che ci ha lasciato Gesù Cristo. E’ lo Spirito il motore di ogni bene, è Lui che ci guida lungo la strada dell’amore e della libertà.

Tornando al nostro testo, potremmo suddividere le parole di Paolo in cinque parti per poi arrivare alla conclusione.

Nella prima parte (versetti da 1 a 3) l’apostolo ci spoglia di tutte le nostre presunzioni, annulla tutto ciò che potrebbe essere il nostro vanto: parlare più lingue, il dono delle profezie e della scienza, persino la fede, il nostro stesso donarsi attraverso le elemosine e il sacrifico del nostro corpo, sono niente di fronte all’amore. 

E’ spontaneo chiederci: ma cos’è questo amore totalizzante che supera tutto, che batte addirittura la fede e il dono di se stessi, ma, forse meglio, potremmo chiederci chi è questo amore? 

La risposta non può essere altra che questo amore è Gesù: Lui liberamente si è offerto per noi ai suoi carnefici con un atto volontario e coerente ai suoi gesti e alla sua predicazione. Gesù è l’amore che sublima tutto il resto, che travolge ogni umana comprensione, che travalica ogni possibile opera che possiamo compiere nella nostra vita. Niente è paragonabile a questa bellezza, a questa profondità.

Gesù, però, è questo amore perché era un uomo libero, un uomo che è stato coerente nella sua dedizione verso il Padre suo e verso gli uomini dall’inizio della sua missione sino alla fine, dal primo giorno all’ultimo. E’ sulla sua libertà che Gesù ha fondato l’amore di cui parla Paolo. Se Gesù fosse stato costretto, se non avesse avuto scelta, questo amore non si sarebbe potuto manifestare. Esercitando la sua libertà si è volontariamente abbandonato ad una morte ignominiosa. 

Siamo al momento della cattura nel giardino dello Getsemani: "Ed ecco, uno di quelli che erano con lui, stesa la mano, prese la spada, la sfoderò e, colpito il servo del sommo sacerdote, gli recise l'orecchio. 52 Allora Gesù gli disse: «Riponi la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, periranno di spada. 53 Credi forse che io non potrei pregare il Padre mio che mi manderebbe in questo istante più di dodici legioni d’angeli?” (Matteo 26, 51-53).

Tutta la vita e la testimonianza di Gesù sono state libere, non si sono mai piegate ai conformismi, alle facili scappatoie. Le sue relazioni sono state libere con chiunque incontrava, con i peccatori, i pubblicani, le donne, le prostitute, i samaritani. Con la sua libertà si è opposto ad ogni sterile legalismo, per andare incontro solo a ciò che recava misericordia, perdono, riconciliazione, in una parola alla vita. Questa libertà l’ha vissuta come Figlio di Dio e l’ha offerta a tutte e tutti coloro che credono in lui perché fossero anche loro libere e liberi. Per essere fedeli a Cristo dobbiamo assumerla come nostra questa libertà. 

Purtroppo, nel corso della storia del cristianesimo questa libertà ci è stata conculcata, ne siamo stati privati, però ci sono stati credenti, nostre sorelle e nostri fratelli, che, pur tra grandi sofferenze, si sono comportati da donne e uomini libere e liberi ed è grazie a loro che oggi siamo qui a proclamare questa Parola.

Nella seconda parte in cui abbiamo suddiviso il testo, nei versetti da 4 a 8, Paolo ci spiega quali sono le caratteristiche dell’amore sia in negativo che in positivo. Sono gli attributi dell’amore che si proietta oltre ogni convenienza umana, oltre ogni speculazione, ogni oltre invidia e oltre ogni vanto, oltre ogni tentazione di godere del male dell’altro o dell’altra, di approfittarne per i propri interessi egoistici. L’amore è invece benevolo, gioisce nella verità, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.  Se l’amore non fosse così, sarebbe solo ipocrisia, si nutrirebbe di falsità.

Anche in questo passaggio non possiamo che trovarci davanti la persona di Gesù. Solo lui è questo amore perfetto, che non ha remore nel donarsi, che si da interamente senza alcuna pretesa per se. Tutta l’esistenza di Gesù è fondata su questo amore sconfinato che ci fa venire le vertigini, tanto da portare a chiederci: ma come posso fare io a raggiungere questa pienezza? E’ impossibile. Si, se guardiamo le nostre miserie, se esaminiamo davvero il nostro cuore è davvero impossibile. Come faccio io, così invidioso, così gonfio di vanto e di orgoglio, così attaccato ai miei interessi, così pronto a giudicare e a godere del male degli altri, così poco paziente, a generare un amore così grande? 

Noi lo proclamiamo questo amore con troppa leggerezza, forse anche oggi, indegnamente. Dobbiamo maneggiarlo con cura, con tremore e timore, perché questo amore è descritto con parole radicali che non saremmo mai davvero capaci di portare per intero dentro noi stessi, li dove abitano i nostri sentimenti.

E, allora, che fare?

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 15 gennaio 2023)

Il lezionario “Un giorno, una parola”, ci propone come testo per la riflessione di questa 2^ domenica dopo l’Epifania un passo tratto dal Libro dell’Esodo, capitolo 33, versetti da 18 a 23. 

Esodo 33,18-23

Care sorelle, cari fratelli,

Il brano che abbiamo di fronte, questa domenica, contiene 6 versetti di una densità spirituale e teologica altissima. Ci innalzano verso livelli sublimi della fede e allo stesso tempo ci pongono davanti a questioni davvero fondamentali.

Vorrei porre subito alla vostra attenzione un interrogativo importante, che riguarda i versetti da 21 a 23, che poi riprenderemo:

21 E il SIGNORE disse: «Ecco qui un luogo vicino a me; tu starai su quel masso; 22 mentre passerà la mia gloria, io ti metterò in una buca del masso, e ti coprirò con la mia mano finché io sia passato; 23 poi ritirerò la mano e mi vedrai da dietro; ma il mio volto non si può vedere».

Stiamo davanti a un Dio che gioca con Mosè e con gli uomini a nascondino. 

Così, dopo una lettura superficiale, potremmo commentare il passo biblico appena condiviso. Probabilmente ognuno di noi, qualche volta nel corso della propria vita, ha sperimentato una condizione di incertezza, quasi di dubbio, di fronte a un Dio che sembra apparire, poi scomparire improvvisamente e non farsi “vedere”, non farci avvertire la sua presenza per tanto tempo, lasciandoci con tante domande aperte e irrisolte.

Ma è proprio così, siamo al cospetto di un Dio burlone, di un Dio che si fa beffe di noi?

Lo vedremo, ma intanto dobbiamo contestualizzare ciò che abbiamo letto. Ci troviamo in un preciso punto della storia della salvezza del popolo d’Israele, un momento drammatico, decisivo. Mosè era sceso dal Sinai con le Tavole della Legge, con le dieci parole che il Signore gli aveva affidato perché il popolo seguisse le sue vie e non sbandasse. Ma Israele non aveva avuto pazienza, aveva perso la fiducia e si era fatto un vitello d’oro da adorare al posto di Yhwh, un idolo che si ponesse alla sua testa. 

“Il popolo vide che Mosè tardava a scendere dal monte; allora si radunò intorno ad Aaronne e gli disse: «Facci un dio che vada davanti a noi; poiché quel Mosè, l'uomo che ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto, non sappiamo che fine abbia fatto». 2 E Aaronne rispose loro: «Staccate gli anelli d'oro che sono agli orecchi delle vostre mogli, dei vostri figli e delle vostre figlie, e portatemeli». 3 E tutto il popolo si staccò dagli orecchi gli anelli d'oro e li portò ad Aaronne. 4 Egli li prese dalle loro mani e, dopo aver cesellato lo stampo, ne fece un vitello di metallo fuso. E quelli dissero: «O Israele, questo è il tuo dio che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto!» 5 Quando Aaronne vide questo, costruì un altare davanti al vitello ed esclamò: «Domani sarà festa in onore del SIGNORE!» 6 L'indomani, si alzarono di buon'ora, offrirono olocausti e portarono dei sacrifici di ringraziamento; il popolo sedette per mangiare e bere, poi si alzò per divertirsi” (Esodo 32,1-6).

Dio sul monte aveva avvisato Mosè di quello che stava succedendo e aveva minacciato di scatenare la propria ira contro il popolo, riconoscendo però l’integrità di Mosè e promettendogli di farlo diventare una grande nazione. Ma Mosè, con grande umiltà e rinunciando al proprio privilegio, pregò il Signore perché rinunciasse alla vendetta e Dio si pentì subito del male che aveva minacciato.

Annotiamo anche queste parole Dio “si penti subito”: è un altro aspetto che riprenderemo pure tra poco.

Mosè, quindi, scese dal monte all’accampamento, vide quello che il Signore gli aveva già descritto e distrusse tanto le Tavole della legge quanto il vitello d’oro.

E’ un momento di crisi terribile, la rottura delle Tavole della Legge e la riduzione in polvere del vitello d’oro ha un significato che va ben oltre l’aspetto materiale, significa anche una prima rottura dell’amicizia con Dio, un’infedeltà che poi, qualche secolo dopo, sfocerà nell’idolatria diffusa, nell’allontanamento del popolo dal Signore, nella distruzione del Tempio di Gerusalemme e nella deportazione a Babilonia. 

Ci verrebbe da dire: che scellerati, Dio li ha tratti dalla schiavitù dell’Egitto e alla prima occasione gli si sono rivoltati contro. Qui faccio un breve inciso, per osservare semplicemente che questa infedeltà non riguarda solo il popolo d’Israele ma ci coglie da vicino con le mani nella marmellata. In mezzo a quel popolo che faceva festa davanti ad un idolo muto, sordo e cieco ci siamo anche noi che talvolta ci illudiamo e ci trastulliamo con gli idoli delle nostre vite. Non dimentichiamo che la confessione di peccato della nostra liturgia serve proprio a fare memoria di tutte le volte che ci siamo resi nemici non solo nei confronti di Dio ma anche del nostro prossimo.

Come nell’annuncio del perdono che segue la confessione dei peccati, Dio però ricuce, dice a Mosè di riferire agli Israeliti che, si sono un popolo di dura cervice, ma non li abbandona. Nonostante tutto sta lì, a dispetto dell’altrui infedeltà Lui si mantiene fedele e, proprio all’inizio del capitolo 33 del libro dell’Esodo, ordina a Mosè di partire verso la terra promessa, la terra dove scorrono latte e miele.   

Ma Mosè, lo possiamo leggere nei versetti che vanno da 12 a 16 dello stesso capitolo 33, vuole essere rassicurato dal Signore circa la Sua presenza durante il viaggio, sa benissimo che senza la presenza e l’aiuto di Dio tutto sarebbe destinato ad un misero fallimento. Si rivolge al Signore con una preghiera bellissima: “Se il tuo volto non camminerà con noi, non farci salire da qui. Come si saprà che ho trovato grazia ai tuoi occhi, io e il tuo popolo, se non nel fatto che tu cammini con noi?”

Dio lo rassicura una prima volta, ma Mosè preso ancora dalla paura di restare solo, gli fa una domanda esplicita: “Ti prego fammi vedere la tua Gloria!”.

Ci dice tanto questo dialogo tra Mosè e il Signore. Dio non fa il permaloso, non prende le richieste di Mosè come una mancanza di fiducia, ma risponde: “Io farò passare davanti a te tutta la mia bontà, proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te; farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò pietà di chi vorrò avere pietà».

Con queste parole Dio comunica a Mosè, e anche a noi, quali sono gli attributi, le caratteristiche della sua divinità.

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 2 dicembre 2022)

Il lezionario “Un giorno, una parola”, ci propone come testo per la riflessione di questa 2^ domenica di Avvento un passo tratto dal Cantico dei Cantici, capitolo 2, versetti da 8 a 13. 

Cantico dei Cantici 2,8-13

Care sorelle, cari fratelli,

con il Cantico dei Cantici raggiungiamo le vette della poesia dell’Antico Testamento, della Bibbia intera e non solo.

Prima di andare al nostro testo non possiamo non chiederci cosa ci faccia un libro così "profano" all’interno del canone biblico. Un testo che narra della passione e dell’amore tra una donna e un uomo, un testo in cui apparentemente Dio non compare. Un libro che sembra spuntare in mezzo alla Bibbia come un oggetto misterioso, non identificato, un ufo delle scritture. Ma è così, è un testo davvero profano, non ci dice niente davvero di Dio? 

Eppure, se il Cantico dei Cantici è stato inserito nel canone biblico un motivo c’è, e possiamo dire che l’ispirazione divina ci ha regalato qualcosa di ineguagliabile, di meravigliosamente sublime.

In effetti, lo stesso titolo del libro è un superlativo per esprimere il senso del “canto sublime”, del "canto per eccellenza”.

Durante il I secolo e.v. c’erano rabbini che dubitavano della canonicità del testo, ma poi l’assemblea rabbinica di Jamne, una località palestinese dove, secondo alcune tradizioni, nel 90 e.v. fu fissato il canone della bibbia ebraica, ne ratificò la piena legittimità a far parte del canone biblico. Celebre è il commento di Rabbi Aqiba: “Il mondo intero non è degno del giorno in cui il Cantico dei Cantici è stato dato Israele. Tutti i libri biblici sono santi, ma il Cantico è santo dei santi”.

A maggiore conferma di ciò, Il Cantico fa parte delle “megillot”, cioè è uno dei cinque rotoli che sono letti integralmente durante le feste più importanti dell’ebraismo. Il Cantico è letto nella festa centrale che le contiene tutte, cioè durante la Pasqua ebraica.

Non dobbiamo però nasconderci che il testo del Cantico ha creato molto imbarazzo nella sua interpretazione. Per giustificarne la presenza nel canone, lo si è interpretato “allegoricamente”, gli è stato attribuito un significato spirituale che è andato dal rapporto di Dio con il suo popolo d’Israele, poi all’amore tra il Signore e la Chiesa, all’anima del credente unita al suo Dio e c’è chi addirittura lo ha riferito a Maria la madre di Gesù.

Ma niente di tutto ciò ha a che fare, però, con il testo del Cantico che è si ricco di contenuti spirituali ma non nel senso delle allegorie che gli sono state attribuite. Il senso spirituale del Cantico è la celebrazione dell’amore umano, dell’amore sensuale e della stessa creazione divina. In ciò si celebra pienamente l’amore di Dio per gli uomini e le donne. Nella Genesi ci viene detto che, dopo ogni suo atto creativo, Dio vide “che era buono”, forse la traduzione migliore è “bello”, e che dopo aver creato l’umano, maschio e femmina, a sua immagine “vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono” (Genesi 1,31). Si, tutto quello che aveva fatto era molto bello. Gli elementi della natura, il maschio e la femmina con i loro sensi erano stati creati in modo armonioso ed equilibrato. Dio poteva veramente gloriarsi della Sua meravigliosa opera.

Ecco dove il Cantico dei Cantici, trova la sua dignità di libro della Scrittura, di libro che “contamina le mani” come dicono i rabbini. E non c’è forse altro libro della Scrittura la cui lettura e meditazione contamina non solo le mani ma tutto il nostro essere di maschi e femmine nella pienezza più grande. Ricordiamo che per gli ebrei non c’è separazione tra corpo, spirito e anima, l’umano è un essere integrale, unitario. Il cuore è al centro di tutto e determina il pensare e l’agire di ogni giorno.

L’influenza della cultura greca ci ha portato probabilmente fuori strada, ci ha quasi imposto a pensare che tutto ciò che è spirituale va innalzato e tutto ciò che è materiale va scartato perchè non è degno dell’umano. Ma Dio ci ha desiderati proprio così come siamo, con i nostri corpi, con tutti i nostri sentimenti e anche con le nostre pulsioni più recondite.

Il Cantico è la glorificazione dell’amore terreno, dell’amore tra due esseri umani in carne e ossa e come tale celebra magnificamente il Dio creatore. 

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 23 ottobre 2022)

Il lezionario “Un giorno, una parola”, ci propone come testo per la riflessione di questa 20^ domenica dopo Pentecoste Marco, capitolo 2, versetti da 1 a 12.

Marco 2,1-12

Care sorelle, cari fratelli,

Il nostro testo, secondo la traduzione della Nuova Riveduta, inizia con: “dopo alcuni giorni…”. 

Ma cosa era successo prima del racconto di oggi? Marco conclude il 1° capitolo del suo Evangelo narrandoci la purificazione da parte di Gesù di un lebbroso che lo aveva pregato in ginocchio. Gesù lo purifica e lo manda, nel rispetto della Torah, a recarsi dal sacerdote per mostrarsi e offrire ciò che Mosè ha prescritto perché fosse come testimonianza per loro. Solo il sacerdote poteva accertare la guarigione dalla lebbra, nessun altro. Sappiamo bene che il lebbroso era considerato una persona impura, costretta a vivere lontano da villaggi e città e quindi socialmente emarginato. Doveva portare le vesti strappate e il capo scoperto; coprirsi la barba e gridare: "Impuro! Impuro!" Quindi alla sofferenza fisica, si aggiungeva quella morale.

Tra l’altro la comparsa della lebbra, come delle altre malattie, era associata al peccato, il lebbroso o qualcuno dei suoi antenati avevano commesso qualcosa di male e ora il giudizio divino faceva “giustizia”, si abbatteva sul malcapitato. Già però Ezechiele 18 avvisava che le colpe e i meriti dei padri non debbono ricadere sui figli, né quelle dei figli sui padri, smentendo il famoso proverbio: "I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati”. Ma, nonostante la parola di Ezechiele, la convinzione rimaneva tant’è che nell’Evangelo di Giovanni al capitolo 9, quando Gesù incontra un cieco nato, i suoi discepoli gli chiedono «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» Conosciamo la risposta di Gesù «Né lui ha peccato, né i suoi genitori…». 

Nell’azione, narrata al termine del capitolo 1 dell’Evangelo di Marco, è scritto che Gesù purifica il lebbroso non che lo guarisce. E’ un particolare importante che riprenderemo nel prosieguo della nostra meditazione. 

Dalla conclusione dello stesso capitolo 1 leggiamo pure che Gesù era molto popolare: “Tutta la città era davanti alla porta della casa di Simone e Andrea” (1,33), “Tutti ti cercano” gli dicono Simone e gli altri (1,37) forse abbagliati da cotanta notorietà e “successo”. Ma Gesù preferiva rimanere fuori, in luoghi deserti perché aveva coscienza di non essere una “superstar”, un mago, un guaritore come i tanti che giravano a quel tempo per le strade della Palestina, ma aveva ben presente la necessità e l’urgenza della sua missione di salvezza, della sua vocazione, che richiedeva, in alcuni momenti, anche la solitudine, e  sempre la preghiera.

Ritorniamo però al nostro testo, Gesù dunque torna a Cafarnao, nella casa di Simone e Andrea e cosa succede? Il racconto di Marco, come nel suo stile, è stringato, essenziale, ma in poche battute ci consente di capire il significato di quello che Gesù ha operato.

Potremmo suddividere il racconto in più scene.

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 25 settembre 2022)

Per questa 16^ domenica dopo Pentecoste, il lezionario “Un giorno una parola” ci propone per la riflessione il testo dell’Epistola ai Galati dal capitolo 5, versetto 25 al capitolo 6, versetto 10.

Galati 5,25-6,10

Cari sorelle e cari fratelli,

ci troviamo certamente di fronte ad un piccolo compendio per la vita dei credenti, alla enunciazione di alcuni principi etici che dovrebbero aiutare ogni cristiano e cristiana e ogni comunità a conformare la propria vita. Se vogliamo, abbiamo davanti una mappa per orientare la nostra esistenza.

Ma è opportuno, prima di affrontare il testo, provare a capire a chi si rivolgeva Paolo quando scrisse queste cose e perché le scrisse.

Per semplificare, senza addentrarci nelle diverse ipotesi fatte dagli studiosi circa l’esatta individuazione della comunità cui era diretta la lettera, i Galati erano una popolazione che abitava le regioni della Galazia, una terra prima conquistata e poi definitivamente integrata nell’ impero romano sotto Augusto nel 25 a.c.. La regione si estendeva dagli altipiani dell’Anatolia al Mar Nero e aveva come centro la città di Ancira (ora Ankara), quindi all’interno dell’odierna Turchia. Il nome derivava dall’origine celtica dei suoi abitanti che, quindi, erano pagani e avevano conosciuto il vangelo solo grazie alla predicazione di Paolo.  

Per quanto riguarda i motivi che spinsero Paolo a scrivere la lettera, c’è da dire che tutte le epistole “autentiche” di Paolo (autentiche, solo per evidenziare quelle di cui siamo certi che furono direttamente opera di Paolo, quindi Romani, 1 Corinzi, 2 Corinzi, Galati, Filippesi, 1^ Tessalonicesi, e Filemone), con l’esclusione di quella ai Romani presso i quali non aveva svolto ancora alcuna missione, avevano come destinatari comunità fondate dalla predicazione orale (in presenza potremmo dire oggi) dell’apostolo. Paolo scrive per risolvere problemi concreti delle stesse comunità, per tamponare situazioni di crisi, per richiamarle a rimanere fedeli all’insegnamento che avevano ricevuto. C’è una tensione continua tra presenza e assenza. Paolo, non potendosi recare di nuovo nelle comunità che aveva già visitato, colma la sua assenza con lo scritto. 

E’ questo anche il caso della lettera ai Galati, che tra l’altro Paolo curiosamente aveva evangelizzato a causa di una sua malattia di cui non conosciamo la natura (proprio come leggiamo al capitolo 4 versetto 13 della lettera). Questi credenti si stavano facendo influenzare da missionari che predicavano un messaggio differente da quello di Paolo. Un messaggio che richiedeva ai Galati stessi di farsi circoncidere, di rispettare il sabato, di osservare i calendari e le feste annuali del giudaismo. Tutto ritenuto indispensabile, secondo la visione di questi predicatori, per inserire i nuovi cristiani a pieno titolo nel popolo dell’Alleanza.

Possiamo dire, senza temere di essere smentiti, che Paolo si ribella a questa situazione e scrive la sua lettera per invitare i Galati a non farsi deviare, a non lasciarsi ingannare, perché l’unico Vangelo è quello predicato da lui, ossia il Vangelo della grazia che supera la legge non perché la abolisce, ma perché la contiene in quanto frutto della promessa fatta già ad Abramo, prima che la legge stessa fosse dettata al popolo d’Israele. Quindi non si entra più nel popolo di Dio per mezzo di un segno carnale, qual è la circoncisione, ma credendo in Gesù Cristo, nella sua morte e resurrezione per mezzo della grazia di Dio e dell’intervento dello Spirito Santo. Paolo ribadisce con vigore che proprio questa grazia è la fonte della libertà del cristiano per impedire che si ritorni sotto la schiavitù della legge e delle opere dalla quale Cristo ci ha affrancato.   

Quindi Paolo scrive ai Galati per sconfessare il falso vangelo dei suoi avversari ma, se riusciamo a superare la distanza del tempo che ci separa dalle nostre sorelle e dai nostri fratelli del I° secolo, possiamo leggerlo come un messaggio universale, come se scrivesse proprio a noi oggi in questo momento e in questa chiesa.

Come già anticipato il testo ha una natura esortativa, è una bussola che indica la navigazione da seguire, che una svolta smascherati i vizi li guarisce con le virtù.

E quale erano i vizi dei Galati? Se leggiamo di riflesso il testo dei versetti 25 e 26 possiamo facilmente individuarli: c’erano persone che camminavano in direzione opposta allo Spirito, vanagloriose, provocatrici  e invidiose. Insomma una comunità che rischiava di prendere una strada diversa, da quella proposta dalla predicazione originaria di Paolo. 

Non abbiamo davanti dunque l’immagine di una comunità perfetta, ma quella di una comunità che, dopo il primo entusiasmo della ricezione della predicazione della buona novella da parte di Paolo, si stava disorientando, stava perdendo i propri riferimenti. Stava quasi per rinunciare alla forza dell’azione salvifica dello Spirito per assoggettarsi al dominio della carne e alle opere della Legge.

A dire il vero l’esperienza dei Galati ci potrebbe essere di consolazione, quasi di giustificazione, perché se loro che avevano ricevuto una predicazione di prima mano stavano rischiando di rendere vana la fatica dell’apostolo, allora possiamo ritenere che tutte le nostre riserve, tutte le nostre debolezze, tutti i nostri “ma” di fronte al vangelo possano trovare quasi un capro espiatorio  nell’atteggiamento dei fratelli e delle sorelle di fede che ci hanno preceduto. Se loro hanno avuto quei problemi tanto da richiedere l’intervento deciso e fermo di Paolo, allora anche noi siamo perfettamente in linea e tra l’altro noi un Paolo non ce lo abbiamo.

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adotta un bambino a distanza

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CHIESA EVANGELICA VALDESE


 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per leggere

Timothy Radcliffe

Amare nella libertà

Come Gesù nell'ultima cena dona il suo corpo, così l'atto di amare è sempre un atto di donazione di tutto il proprio essere all'altro. (13 marzo 2023)

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Elogio del silenzio

Il silenzio ha tante sfaccettature. Si ricerca, si vende, si rappresenta, si legge, si mette in scena, si fotografa. C'è pure il futuro del silenzio. (5 marzo 2023)

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Orrore, schifo, guerra - L'aggressione all'Ucraina nelle parole dei bambini russi

Immediatamente dopo l'aggressione russa all'Ucraina del 24 febbraio 2022, la scrittrice Julia Yacovleva prova ad ascoltare cosa ne pensano i bambini russi. Ne esce uno spaccato di grande sofferenza, di divaricazione tra una generazione adulta che è al potere e  "comanda" e i "piccoli" che vorrebbero contestarla ma non possono, anzi con il loro comportamento "prudente" sono chiamati a proteggere l'incolumità dei loro genitori dalle ritorsioni del regime. Una condizione simile a quella raccontata in altre indagini sulla situazione dei bambini in tempo di guerra. (15 febbraio 2023)

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Un libro con un sottotitolo impegnativo, d'altri tempi: "Apologia". In effetti il pastore e teologo valdese Paolo Ricca propone, in maniera condivisibile e attraverso il confronto con il pensiero ateo e quello delle altre grandi religioni, la difesa del Dio rivelato nelle Sacre Scritture Ebraico-Cristiane. (9 febbraio 2023)

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Alcune delle più belle opere di Cesare Pavese. (5 dicembre 2022)

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Amos Oz

Giuda

Giuda è stato il davvero il traditore di Gesù o il suo più fedele seguace? Sul filo di questa domanda si dipana il racconto che gira intorno ad un periodo della vita del giovane Shemuel Asch che tra la fine del 1959 e l'inizio del 1960, dopo aver rinunciato agli studi all'Università di Gerusalemme, va a vivere per tutto l'inverno da Gershom Wald, un settantenne cui presta assistenza, e Atalia Abrabanel, la nuora di Gershom della quale Shemuel si invaghisce. In sottofondo, fanno da eco gli eventi drammatici della nascita dello Stato d'Israele. (31 marzo 2022)

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