(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 28 gennaio 2024)

2 Corinzi 4,6-10

Care sorelle, cari fratelli,

i cinque versetti del capitolo 4 della 2^ lettera ai Corinzi, che abbiamo oggi di fronte, sono così densi di significato che anche letti da soli dovrebbero essere in grado di motivare e di rinnovare la nostra fede, restituendoci ragione della nostra vocazione.

Già, leggendo il solo versetto 6 non possiamo non notare l’assoluto parallelo con il magnifico prologo dell’evangelo di Giovanni nei cui versetti, da 1 a 13 del capitolo 1, troviamo scritto:   

1 Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. 2 Essa era nel principio con Dio. 3 Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. 4 In lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini. 5 La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno sopraffatta.
6 Vi fu un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni. 7 Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui. 8 Egli stesso non era la luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce. 9 La vera luce che illumina ogni uomo stava venendo nel mondo. 10 Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto. 11 È venuto in casa sua e i suoi non l'hanno ricevuto; 12 ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome, 13 i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d'uomo, ma sono nati da Dio.

La Luce, dunque, che risplende nelle tenebre, che spezza il buio,  che vince la notte, proprio come all’inizio del racconto della Genesi: 

“3 Dio disse: «Sia luce!» E luce fu. 4 Dio vide che la luce era buona; e Dio separò la luce dalle tenebre. 5 Dio chiamò la luce «giorno» e le tenebre «notte». Fu sera, poi fu mattina: primo giorno” (Genesi 1,3-5).

La Luce come elemento primordiale della creazione, come segno di separazione dall’oscurità. 

Questa Luce, sempre secondo il prologo del vangelo di Giovanni, già nel principio esisteva in Cristo.

Cristo è la nostra Luce, la lampada che illumina i nostri passi. 

Luce che non dobbiamo andare a ricercare lontano da noi, perché è già dentro di noi. Basta scrutare la nostra interiorità con fede e umiltà e la troveremo. 

Questa Luce, che scoviamo nel nostro intimo, è iscritta nei nostri cuori ed è già una manifestazione del Regno di Dio che aspettiamo.

“20 Interrogato poi dai farisei sul quando verrebbe il regno di Dio, rispose loro: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà: 21 "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi” (Luca 17, 20-21).

Quel “in mezzo a voi” è la traduzione delle parole greche “entòs umon”  che possono significare anche “dentro di voi”, come traduce la “Nuova Diodati”.

Il Regno di Dio, attraverso la Luce di Gesù Cristo, partecipa alla nostra vita sia perché, se siamo desiderosi di trovarlo, risiede nei nostri cuori (dentro di noi), sia perché, se abbiamo trovato quella Luce dentro di noi, poi possiamo condividerla con il resto dell’umanità (in mezzo a noi). 

Noi, attraverso la stessa Luce, partecipiamo alla venuta del Regno.

Siamo parte di un mistero insondabile e meraviglioso, di qualcosa che trasforma le nostre misere vite elevandole al cielo.

E’ una Luce inestinguibile, perché attraverso la resurrezione ha sconfitto la tenebra più grande, quella della morte.

E’ una Luce poi che non solo illumina i nostri cuori, ma che li riscalda facendoci assaporare tutto l’amore di Dio per noi.

Non è, quindi, una Luce fredda, ma calda, accogliente, nella quale possiamo si rifugiarci, ma non possiamo tenerla solo per noi come se fosse una nostra proprietà, un tesoro geloso.

Paolo lo dice: far brillare questa Luce tocca proprio a ognuno e ognuna di noi, attraverso la testimonianza di ciò che abbiamo già conosciuto: la gloria di Dio.

E questa gloria dove rifulge se non nel volto di Cristo?

Certo noi non abbiamo visto mai il volto di Cristo. Paolo, invece, ha incontrato la Luce che emana dal volto di Cristo il giorno in cui la sua vita ebbe una folgorante trasformazione mentre si recava a  Damasco:

E durante il viaggio, mentre si avvicinava a Damasco, avvenne che, all'improvviso, sfolgorò intorno a lui una luce dal cielo 4 e, caduto in terra, udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» 5 Egli domandò: «Chi sei, Signore?» E il Signore: «Io sono Gesù, che tu perseguiti. 6 Àlzati, entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare” (Atti 9,3-6).

Quindi, Paolo ha visto questa luce della conoscenza della gloria di Dio, ne ha fatto perfetta esperienza e noi crediamo, pur non avendola vista, sulla base della sua testimonianza.

Questo credere in base alla sua testimonianza ci rende anche beati:

Tommaso non aveva creduto al racconto degli altri discepoli che gli raccontavano di aver visto Gesù, ma dopo otto giorni, quando Gesù si ripresentò e Tommaso ebbe modo di constatare la verità, disse al Signore: “Signore mio e Dio mio” e Gesù ribatté: 

«Perché mi hai visto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»(Giovanni 20,29).

La nostra fede è, essa stessa, la nostra beatitudine, ce lo dice Gesù.

Per questo siamo depositari di un tesoro unico, il più prezioso che c’è.

Si, proprio noi, proprio ciascuna e ciascuno di noi è titolare di tale immensa ricchezza.

Ma la cosa straordinaria è che il Signore non ha depositato la Sua gloria in casseforti o in armadi corazzati al riparo da ladri o da qualsiasi altro pericolo. 

No, la ha collocata dentro di noi. Contenitori esili, fragili, esposti a tutte le intemperie della vita: appunto vasi di terra.

Lo ha fatto per esaltare la Sua potenza, perché nessuno di noi potesse vantarsene.

Se ciascuno di noi trova la Luce dentro di sé non può accamparne alcun merito, perché è un dono di Dio, proviene dalla Sua immensa grazia. 

E’ una grazia che il Signore mette a disposizione di tutte e tutti, lo fa con generosità perché, nonostante noi, continua a fidarsi dell’essere umano e desidera che nessuno/a si perda.

Il resto però dobbiamo farlo noi. Riconoscere la grazia che abbiamo già nel cuore è una nostra prerogativa, siamo in grado anche di dire di no, di rinunciarvi.

E’ qui il gioco tra la libertà di Dio e la nostra responsabilità.

Dio ci regala la Luce per illuminare le nostre vite, noi possiamo decidere benissimo di non accenderla o, addirittura, di spegnerla. 

Se decidiamo di stare nella Luce, la nostra scelta deve diventare vocazione e la vocazione responsabilità.

La nostra vocazione responsabile non si traduce in un “andrà tutto bene”, in una copertura assicurativa contro ogni male, ma ci deve immettere in una direzione, in un percorso in cui incanalare le nostre vite.

E’ per questa vocazione responsabile che possiamo essere in grado di superare i nostri limiti, di guardare al presente e al futuro con speranza nonostante ogni nostra fragilità.

Paolo ce lo spiega bene.

Siamo vasi di terra, che rischiano di sfarinarsi ogni giorno. 

Siamo tribolati in ogni maniera, ma non ridotti all'estremo; perplessi, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; atterrati, ma non uccisi.

E dove possiamo trovare il coraggio, la forza per non essere ridotti all’estremo, per non essere disperati, per non essere abbandonati, per non essere uccisi?

La troviamo nella morte avvilente di Gesù, a cui dobbiamo partecipare con tutti i nostri sensi, per poi partecipare e fare festa  nello stesso modo per la Sua gloriosa resurrezione.

Resurrezione che significa misericordia, redenzione, vita nuova.

Tutto ciò è davvero pazzia per gli uomini, proprio perché il Signore vuole esaltare i miti, i deboli, i puri di cuore, come Lui che si è consegnato ad una morte ingiusta e ignominiosa per donarci poi la Luce, lo splendore della resurrezione. 

E di questa resurrezione che noi viviamo, increduli proprio come i discepoli che tra Gerusalemme e Emmaus sperimentarono tutto: dalla delusione della crocifissione all’esaltazione dell’averlo riconosciuto dallo spezzare del pane “dopo aver aperto gli occhi”, e tornarono indietro (corsero) verso Gerusalemme per dare la notizia alle sorelle e ai fratelli che erano rimasti in città: 

“30 Quando fu a tavola con loro prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede loro. 31 Allora i loro occhi furono aperti e lo riconobbero; ma egli scomparve alla loro vista. 32 Ed essi dissero l'uno all'altro: «Non sentivamo forse ardere il cuore dentro di noi mentre egli ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture? 33 E, alzatisi in quello stesso momento, tornarono a Gerusalemme e trovarono riuniti gli undici e quelli che erano con loro, 34 i quali dicevano: «Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone». 35 Essi pure raccontarono le cose avvenute loro per la via, e come era stato da loro riconosciuto nello spezzare il pane. (Luca 24,30-35).

Anche noi siamo chiamati ad aprire gli occhi per fare risplendere nei nostri cuori la Luce di Gesù Cristo. 

Aprire gli occhi significa essere capaci, essere pronti a  riconoscere il Signore. 

Ma il bello del racconto dei discepoli di Emmaus è che non appena aprirono gli occhi Gesù scomparve dalla loro vista.

Che strano: proprio quando lo riconoscono Lui sparisce dalla loro vista. Nostro Signore è davvero curioso, si cela sul più bello lasciando però i cuori ardenti, le menti cambiate, l’uomo completamente trasformato.

Dalla delusione della perdita alla gioia dell’incontro: un intreccio di sentimenti per tornare nuovamente a vivere.

Ma la vita dei discepoli di Emmaus, a quel punto, non è più la stessa, non è possibile solo conservare i bei sentimenti, l’emozione di una storia sensazionale, ma è ripartire, tornare a Gerusalemme per testimoniare quanto  è loro accaduto alle altre sorelle e agli altri fratelli.

E, infatti, così fanno. Avevano vissuto una giornata di cammino sulle strade polverose della Giudea, ma quell’aprire gli occhi, quel riconoscimento del Signore, quel cuore che si è scaldato e che batte all’impazzata danno loro la forza di tornare subito indietro, di non perdere tempo perché hanno incontrato il Signore, hanno camminato e spezzato il pane con Lui.

Una gioia indescrivibile, che non si può non condividere, che urla l’urgenza di farne partecipi gli altri e le altre.

“Per far brillare la luce della conoscenza della gloria di Dio, che rifulge nel volto di Gesù Cristo”: così dice Paolo nel nostro testo.

Fare brillare, illuminare, risplendere.

14 Voi siete la luce del mondo. Una città posta sopra un monte non può rimanere nascosta, 15 e non si accende una lampada per metterla sotto un recipiente; anzi la si mette sul candeliere ed essa fa luce a tutti quelli che sono in casa. 16 Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli”. (Matteo 5, 14-16).

I discepoli di Emmaus sono stati illuminati dall’incontro con Gesù e tornano subito a Gerusalemme per illuminare a loro volta di fiducia e di speranza sorelle e fratelli che erano anche loro nella disillusione, nella delusione, se vogliamo nella disperazione.

Se guardiamo a noi, dovremmo provare ad imitare questi discepoli.

E’ vero: come dice Paolo siamo vasi di terra.

Le nostre vite sono quasi sempre confuse da mille preoccupazioni, sofferenti per la malattia, afflitte per le perdite. 

Ma abbiamo comunque una strada in cui incanalarle. Se la Luce di Cristo che noi riceviamo attraverso la Sua Parola, davvero scalda i nostri petti allora questo stesso calore dobbiamo provare a fare in modo che non scaldi solo noi, ma che si possa estendere a tutte e tutti coloro che incontriamo sul nostro cammino.

I discepoli di Emmaus, in fondo, rispecchiano le nostre condizioni. 

Anche noi siamo talvolta disillusi, con le batterie a terra, avvolti nel nostro pessimismo, gonfi di recriminazioni.

Può capitare e capita, ma, come dice sempre Paolo, abbiamo un tesoro prezioso perché, se siamo qui, almeno una volta nella nostra vita abbiamo alzato lo sguardo, ci si sono aperti gli occhi, ci si è scaldato il cuore per un incontro: quello con il Signore e la Sua Parola.

Allora, basta fare memoria e trasformare questa memoria in vita vera, in amore per il Signore e per il prossimo, perché ogni giorno possa essere un giorno nuovo, un giorno in cui pronunciamo ancora un altro Si.

Questa memoria facciamola diventare vocazione, testimonianza anche per gli altri.

La vocazione non significa essere prefetti, non sbagliare, non cadere, non essere immuni dalle tentazioni del male. La vocazione è la consapevolezza di aver scelto una via e di proseguire il cammino sino alla fine dei nostri giorni, coscienti che comunque, prima o poi, vi incontreremo ostacoli e difficoltà e dovremo essere capaci di resistere alle intemperie e dare sempre ragione della fede che è in noi. 

Proprio come i discepoli di Emmaus che, nel pieno della notte, si alzano e tornano a Gerusalemme. Un ritorno quasi al buio, irto di pericoli, ma con l’urgenza della testimonianza, di fare brillare la luce della conoscenza della gloria di Dio, che rifulge nel volto di Gesù Cristo.

Amen

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