(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 25 settembre 2022)

Per questa 16^ domenica dopo Pentecoste, il lezionario “Un giorno una parola” ci propone per la riflessione il testo dell’Epistola ai Galati dal capitolo 5, versetto 25 al capitolo 6, versetto 10.

Galati 5,25-6,10

Cari sorelle e cari fratelli,

ci troviamo certamente di fronte ad un piccolo compendio per la vita dei credenti, alla enunciazione di alcuni principi etici che dovrebbero aiutare ogni cristiano e cristiana e ogni comunità a conformare la propria vita. Se vogliamo, abbiamo davanti una mappa per orientare la nostra esistenza.

Ma è opportuno, prima di affrontare il testo, provare a capire a chi si rivolgeva Paolo quando scrisse queste cose e perché le scrisse.

Per semplificare, senza addentrarci nelle diverse ipotesi fatte dagli studiosi circa l’esatta individuazione della comunità cui era diretta la lettera, i Galati erano una popolazione che abitava le regioni della Galazia, una terra prima conquistata e poi definitivamente integrata nell’ impero romano sotto Augusto nel 25 a.c.. La regione si estendeva dagli altipiani dell’Anatolia al Mar Nero e aveva come centro la città di Ancira (ora Ankara), quindi all’interno dell’odierna Turchia. Il nome derivava dall’origine celtica dei suoi abitanti che, quindi, erano pagani e avevano conosciuto il vangelo solo grazie alla predicazione di Paolo.  

Per quanto riguarda i motivi che spinsero Paolo a scrivere la lettera, c’è da dire che tutte le epistole “autentiche” di Paolo (autentiche, solo per evidenziare quelle di cui siamo certi che furono direttamente opera di Paolo, quindi Romani, 1 Corinzi, 2 Corinzi, Galati, Filippesi, 1^ Tessalonicesi, e Filemone), con l’esclusione di quella ai Romani presso i quali non aveva svolto ancora alcuna missione, avevano come destinatari comunità fondate dalla predicazione orale (in presenza potremmo dire oggi) dell’apostolo. Paolo scrive per risolvere problemi concreti delle stesse comunità, per tamponare situazioni di crisi, per richiamarle a rimanere fedeli all’insegnamento che avevano ricevuto. C’è una tensione continua tra presenza e assenza. Paolo, non potendosi recare di nuovo nelle comunità che aveva già visitato, colma la sua assenza con lo scritto. 

E’ questo anche il caso della lettera ai Galati, che tra l’altro Paolo curiosamente aveva evangelizzato a causa di una sua malattia di cui non conosciamo la natura (proprio come leggiamo al capitolo 4 versetto 13 della lettera). Questi credenti si stavano facendo influenzare da missionari che predicavano un messaggio differente da quello di Paolo. Un messaggio che richiedeva ai Galati stessi di farsi circoncidere, di rispettare il sabato, di osservare i calendari e le feste annuali del giudaismo. Tutto ritenuto indispensabile, secondo la visione di questi predicatori, per inserire i nuovi cristiani a pieno titolo nel popolo dell’Alleanza.

Possiamo dire, senza temere di essere smentiti, che Paolo si ribella a questa situazione e scrive la sua lettera per invitare i Galati a non farsi deviare, a non lasciarsi ingannare, perché l’unico Vangelo è quello predicato da lui, ossia il Vangelo della grazia che supera la legge non perché la abolisce, ma perché la contiene in quanto frutto della promessa fatta già ad Abramo, prima che la legge stessa fosse dettata al popolo d’Israele. Quindi non si entra più nel popolo di Dio per mezzo di un segno carnale, qual è la circoncisione, ma credendo in Gesù Cristo, nella sua morte e resurrezione per mezzo della grazia di Dio e dell’intervento dello Spirito Santo. Paolo ribadisce con vigore che proprio questa grazia è la fonte della libertà del cristiano per impedire che si ritorni sotto la schiavitù della legge e delle opere dalla quale Cristo ci ha affrancato.   

Quindi Paolo scrive ai Galati per sconfessare il falso vangelo dei suoi avversari ma, se riusciamo a superare la distanza del tempo che ci separa dalle nostre sorelle e dai nostri fratelli del I° secolo, possiamo leggerlo come un messaggio universale, come se scrivesse proprio a noi oggi in questo momento e in questa chiesa.

Come già anticipato il testo ha una natura esortativa, è una bussola che indica la navigazione da seguire, che una svolta smascherati i vizi li guarisce con le virtù.

E quale erano i vizi dei Galati? Se leggiamo di riflesso il testo dei versetti 25 e 26 possiamo facilmente individuarli: c’erano persone che camminavano in direzione opposta allo Spirito, vanagloriose, provocatrici  e invidiose. Insomma una comunità che rischiava di prendere una strada diversa, da quella proposta dalla predicazione originaria di Paolo. 

Non abbiamo davanti dunque l’immagine di una comunità perfetta, ma quella di una comunità che, dopo il primo entusiasmo della ricezione della predicazione della buona novella da parte di Paolo, si stava disorientando, stava perdendo i propri riferimenti. Stava quasi per rinunciare alla forza dell’azione salvifica dello Spirito per assoggettarsi al dominio della carne e alle opere della Legge.

A dire il vero l’esperienza dei Galati ci potrebbe essere di consolazione, quasi di giustificazione, perché se loro che avevano ricevuto una predicazione di prima mano stavano rischiando di rendere vana la fatica dell’apostolo, allora possiamo ritenere che tutte le nostre riserve, tutte le nostre debolezze, tutti i nostri “ma” di fronte al vangelo possano trovare quasi un capro espiatorio  nell’atteggiamento dei fratelli e delle sorelle di fede che ci hanno preceduto. Se loro hanno avuto quei problemi tanto da richiedere l’intervento deciso e fermo di Paolo, allora anche noi siamo perfettamente in linea e tra l’altro noi un Paolo non ce lo abbiamo.

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 17 luglio 2022) 

Per questa 6^ domenica dopo Pentecoste, il lezionario “Un giorno, una Parola" suggerisce per la predicazione il testo di Genesi, capitolo 12, versetti da 1 a 4a. 

Genesi 12,1-4a

Care sorelle, cari fratelli,

siamo di fronte ad un testo fondamentale, ad uno dei capisaldi della nostra fede. Ne troviamo pure gli echi nel Libro degli Atti al capitolo 3 e Paolo vi dedica quasi l’intero  quarto capitolo della sua lettera ai Romani, dove ci ricorda che Abramo è il padre e il prototipo di ogni credente.

In questi pochi versetti risiede la promessa che Dio fa all’umanità intera, quindi a tutte e tutti noi, di ricevere la Sua benedizione per mezzo della benedizione di Abramo. Questa promessa è perenne, precede ogni patto e ogni Legge successiva e ci è offerta come un vero e proprio dono e come tutti i doni preziosi, quelli a cui teniamo di più, ci ricorda da dove proviene, chi ce lo ha fatto, riconoscendolo siamo posti di fronte alla nostra personale responsabilità.

Oggi però vorrei dedicare lo spazio di questa riflessione sulla dimensione della fede di Abramo che chiama in causa direttamente anche la nostra di fede.

Leggendo e rileggendo il testo non ho potuto non chiedermi: ma Abramo non pensò niente, non ebbe alcun dubbio, perché non proferì parola? E, neanche provò a rimandare la sua partenza chiedendo al Signore di aspettare perché aveva qualcosa da sbrigare prima.

Al versetto 4 ci viene detto semplicemente “Abramo partì, come il Signore gli aveva detto”. C’è da restare davvero sconcertati: ma come ti chiedono di lasciare la tua terra, tuo padre, i tuoi parenti per andare verso l’ignoto e tu Abramo lo fai come se fosse la cosa più logica e facile del mondo?  

Il testo, che abbiamo appena letto, non entra nei pensieri di Abramo, non ci parla di un qualsiasi tipo di sua riserva, ci dice che reagì partendo, abbandonando tutto ciò che aveva e allontanandosi da quello che lui stesso era stato sino a quel momento.

Ritorneremo ancora su questo aspetto, ma l’atteggiamento di Abramo continua a sembrami davvero strano, se solo lo mettiamo davanti alle resistenze che opponiamo quando il Signore ci chiama a lasciare ogni nostra sicurezza, a cambiare strada, a fidarci ad occhi chiusi della Sua Parola.

E’ un testo che indubbiamente ci mette in crisi, ma possiamo ben dire che non siamo soli, siamo in buona compagnia e che  bella compagnia.

Nel cammino della salvezza sono tanti i credenti e le credenti che davanti alla chiamata di Dio hanno provato a resistere, ad accampare scuse, alcune volte anche abbastanza ridicole, anche se poi si sono lasciati andare ad un deciso “Si”.

Sara stessa, sua moglie, quando in Genesi 18 i tre Angeli annunciano ad Abramo la nascita di Isacco, rise dentro di sé, dicendo: “Vecchia come sono, dovrei avere tali piaceri”? Sarà dubitò, gli Angeli glielo rinfacciarono, ma la promessa di Dio arrivò comunque a compimento. Isacco nacque.

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 22 maggio 2022)

Per questa 5^ domenica dopo Pasqua - Rogate (Pregate!), il lezionario “Un giorno, una Parola" suggerisce per la predicazione il testo di Luca 11,1-13. 

Luca 11,1-13

Care sorelle, cari fratelli, 

In questo passo del vangelo di Luca ci troviamo di fronte alla nostra preghiera, si proprio a quella che possiamo definire la preghiera per antonomasia dei cristiani e delle cristiane: il Padre Nostro. Una preghiera che recitiamo in ogni nostro culto, ma anche nella nostra quotidianità. Magari, talvolta, ci capita di pronunciarla distrattamente, senza dare il giusto peso alle parole che escono dalla nostra bocca, ma questo non ci deve scoraggiare, perché il Signore gradisce sempre quando lo cerchiamo con cuore sincero per consentirgli di entrare nelle nostre vite, come vedremo anche nell’ultima parte di questa riflessione.

Il Padre Nostro contiene le invocazioni che sintetizzano quale dovrebbe essere il nostro modo di porci davanti al Signore e cioè con l’animo umile, aperti e fiduciosi ad una Sua risposta che non ci lasci soli e sole nelle nostre esistenze.

Nei Vangeli ci sono due versioni del Padre Nostro. Quella di Matteo e quella di Luca.

La versione “Lucana” del Padre Nostro è più breve di quella che il vangelo di Matteo riporta nel capitolo 6 ai versetti da 9 a 13, che è quella che conosciamo meglio e che recitiamo abitualmente. Il vangelo di Luca riporta 5 invocazioni a differenza di quello di Matteo che ne riporta 7, e sono:

  1. padre, sia santificato il tuo nome;

2.  venga il tuo regno;

3.  dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano;

4.  perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore;

5.  non ci esporre alla tentazione.  

Facciamo subito un breve passo indietro. Al versetto 1 del nostro testo Luca ci informa che Gesù si trovava in un certo luogo a pregare e uno dei suoi discepoli gli chiese: “insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. Gesù dunque, e lo sappiamo benissimo, pregava sempre. Potremmo anche dire che tutta la Sua vita è stata una preghiera, rivolta sia al Padre che agli uomini e alle donne che incontrava. La Sua stessa relazione con il Padre era fondata sulla preghiera assidua e quel discepolo, magari desideroso di imitarlo e di ottenerne la forza, chiede a nome di tutti gli altri di imparare a pregare. 

Come fare? Con quali parole rivolgersi al Signore? Quel discepolo chiede a Gesù dei lumi, un’ispirazione.

Il testo non ci dice con quali parole Gesù si era rivolto al Signore nella sua preghiera prima della richiesta del discepolo, né quali erano le preghiere del gruppo di Giovanni, ma possiamo essere certi che conosceva benissimo le preghiere che il suo popolo, il popolo della Torah, innalzava al Dio benedetto e sicuramene conosceva la preghiera ebraica del Qaddish (che significa “Santo”) e delle diciotto benedizioni. Il Qaddish inizia proprio così: “Sia magnificato il suo santo Nome nel mondo che egli ha creato secondo la Sua volontà; venga il suo regno durante la nostra vita e ai nostri giorni e durante la vita di tutta la casa d’Israele fra breve e nel nostro prossimo”. Quindi, Gesù, con il suo insegnamento, non si mette fuori dalle tradizioni ebraiche, però le innova, le semplifica per dare maggiore essenzialità e perciò più forza alle sue parole. Proprio per questo, nel corrispondente Vangelo di Matteo, Gesù raccomanda la discrezione, quasi la solitudine, nella preghiera e di non usare troppe parole, perché il Signore conosce il nostro cuore e ciò di cui abbiamo bisogno.

Ma ora vorrei, per sommi capi, concentrare la nostra attenzione sulla quinta domanda del Padre Nostro di Luca, la sesta per Matteo, forse la più intrigante: “non ci esporre alla tentazione”. 

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 20 marzo 2022)

Per questa terza domenica del Tempo di Passione, il Lezionario “Un giorno, una Parola” ci propone come testo per la predicazione 1 Re, 19, 1-13a. E’ un testo ricco di messaggi e di implicazioni anche per le nostre vite. Prima di commentarlo, lo leggiamo però insieme.

1 Re 19, 1-13a

Care sorelle, cari fratelli

Dal testo appena letto e ascoltato siamo chiamati trovare, come in tutti i brani biblici, cose nuove e cose antiche. Tutte ci aiutano a racimolare i pezzi necessari alla costruzione di un mosaico dentro il quale si può scorgere un messaggio che, nonostante la lontananza storica dal racconto, parla anche a noi oggi.

Tra questi pezzi ve ne vorrei proporre due (quello del numero quaranta e quello del mormorio di vento leggero).

 

Prima però di affrontare questi temi, c’è bisogno di collocare il testo nel contesto della narrazione biblica. 

I due libri dei Re ci parlano delle vicende dei Re d’Israele, dalla conclusione del regno di Davide, all’avvento di quello di Salomone, al decadimento di quest’ultimo e alla scissione tra il Regno del Sud, quello che sarà chiamato Regno di Giuda, e il regno del Nord, quello che andrà sotto il nome di Regno di Israele, sino alla distruzione di Gerusalemme e all’esilio babilonese. Il nostro testo si colloca all’interno del Regno del nord, del Regno d’Israele. 

Il capitolo 16 del primo libro dei Re ci dice che in quel tempo divenne re d’Israele Acab, figlio del precedente re Omri. 

Il testo biblico ci informa pure che Acab prese in moglie Izebel, o Gezabele, e che fece: “ciò che è male agli occhi del Signore, più di tutti quelli prima di lui”. Infatti, il re Acab insieme alla cinica e spietata compagna Gezabele si dedicarono al culto del dio Baal (che significa padrone/signore). 

Baal era adorato come la divinità suprema/principale dei Cananei ed era rappresentato da un toro o da un vitello, quali simboli di fecondità. A tal proposito, ci torna subito in mente quanto avvenne in Esodo 32, quando il popolo d’Israele, uscito dall’Egitto, stanco di aspettare il ritorno di Mosè dal monte, fuse dell’oro per costruire un vitello che poi adorò. 

Però, in particolare, in questa storia la devozione dei profeti della corte di Acab e Gezabele è rivolta verso Baal di Tiro, un idolo raffigurato sotto l’aspetto di un guerriero. In sostanza Acab, insieme a Gezabele, aveva condotto il suo popolo a voltare le spalle al Dio d’Israele e a praticare l’idolatria.

E in questo contesto che si situa il testo che oggi abbiamo davanti, ma per comprenderlo meglio dobbiamo fare ancora un piccolo passo indietro. 

Nel precedente capitolo 18 Elia sfida davanti al popolo, sul Monte Carmelo, ben quattrocentocinquanta profeti di Baal. 

Per individuare questo luogo importante del nostro racconto, possiamo chiedere un piccolo aiuto alla geografia che ci dice che il monte Carmelo fa parte di un complesso montuoso posto a sud della città di Haifa.  Chi fa un viaggio in Israele lo può trovare sulla strada che porta dall’aeroporto di Tel Aviv a Gerusalemme ed è una delle prime tappe proposte nell’itinerario dei viaggi in Terra Santa. Oggi, c’è un monastero carmelitano dalla terrazza del quale si può godere di una veduta bellissima, la stessa vista che probabilmente aveva aiutato il servo di Elia, sempre nel capitolo 18, a scorgere la pioggia che segnava la fine della siccità che il profeta stesso aveva preannunciato nel capitolo 17. 

Qui, sul Monte Carmelo, Elia, usando anche una pungente ironia che sottolinea l’impotenza e la vacuità degli idoli, sconfigge i profeti di Baal perché, dopo avere invocato il nome del Signore, un fuoco cadde dal cielo e consumò il suo olocausto, a differenza degli stessi profeti di Baal che invece fallirono nel medesimo intento, nonostante il loro frenetico dimenarsi e l’invocazione fremente del loro dio. Così, Elia riuscì a convincere il popolo che il “Signore è Dio”, e lo spinse in una caccia ai profeti di Baal che furono sterminati. 

Giungiamo quindi al nostro testo di oggi. 

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