La manifestazione di Amantea di sabato scorso “Riprendiamoci la vita, vogliamo una Calabria pulita”,  organizzata dal Comitato civico “Natale De Grazia”, è stata un grande evento di partecipazione popolare che finalmente ha fatto vedere una Calabria, nei suoi cittadini, consapevole della necessità di doversi riprendere il proprio territorio, il proprio mare, in una parola il proprio destino. Non era scontato che una marea così grande di persone (si parla di circa 30.000) confluisse da ogni dove della nostra regione per esprimere insieme al grido dolore e alla rabbia, anche e soprattutto l’istanza di verità e di cambiamento. Forse, finalmente, abbiamo riscoperto la società civile o, probabilmente, meglio, come direbbe Don Luigi Ciotti, la società responsabile.

Anche il mare di Amantea era in forte movimento, uno spettacolo di forza con i suoi cavalloni impetuosi, quasi a dare lo slancio: andate avanti, lottate, difendetemi perché così difenderete anche voi. E il tempo, nel corso del corteo, ci ha regalato sole e pioggia, manifestazioni di una natura che non può tollerare ulteriori violenze.

C’erano anche numerosi politici che, giustamente, non hanno parlato, ma speriamo che abbiano avuto la capacità e la sensibilità di ascoltare la voce della comunità che chiede loro risposte semplici: la verità su quello che è realmente accaduto e l’impegno concreto di lottare a difesa dell’ambiente, che dovrebbe essere la nostra principale risorsa, anche economica, e che invece forse è stato utilizzato per essere fonte di illecito arricchimento per pochi e di morte morale e materiale per tanti, per troppi.    

(Lunedì, 26 ottobre 2009)

La politica italiana, sia a livello locale che nazionale, è sempre più ripiegata sulla logica pura del consenso. Intendiamoci, non parlo del consenso sui programmi, sulle idee, su una visione. Su questo si fonda la radice della democrazia che è il confronto e la scelta tra diversi e alternativi modi di vedere e di intendere la società e il suo governo.  Intendo, invece, riferirmi al consenso spicciolo, quello su piccoli e grandi favori, su promesse mirabolanti e ingannatrici, in una parola al voto di scambio. I frutti avvelenati di questo sciagurato modo di intendere la politica sono sotto gli occhi di tutti, oggi più che mai di fronte alle bare delle vittime provocate dall’alluvione del messinese. Si, perché per un pugno di voti si permette di costruire dove il territorio non lo consente, non si abbattono le costruzioni illegali, si permette di inquinare e deturpare l’ambiente e la salute dei cittadini, si coopta una burocrazia che non può e non riesce a svolgere il proprio dovere, si violano i più elementari principi della convivenza civile. Il fenomeno assume una connotazione ancora più devastante nelle nostre regioni meridionali, dove il bisogno è più grande e dove il politico di turno è visto come colui che può “aiutarti” che ti può “risolvere il problema”. E, allora, il consenso diventa l’arma letale per acquisire un potere fine a se stesso che non ha nulla che fare con il servizio alla comunità. Non solo, il consenso diviene anche l’alibi per sfuggire alla proprie responsabilità: “ho il consenso dei cittadini, il popolo è con me”.

Questo modo di intendere la politica è purtroppo quasi universale, cioè praticato a destra, al centro e a sinistra. Per rimuoverlo servirebbe un nuovo grande patto sociale e politico. A sottoscriverlo dovrebbero essere prima di tutto i grandi partiti su alcuni punti fermi fondamentali, la condivisione di un rigoroso codice etico al centro del quale ci sia l’affermazione della responsabilità e del rifiuto di ogni logica di “do ut des”, del dare per avere. Si potrebbe aprire una nuova stagione della politica su un terreno comune di rispetto e di giustizia, dove ogni partito si proporrebbe ai cittadini in maniera trasparente ed esclusivamente sulla base del proprio programma di governo. E bisognerebbe partire proprio dalla nostra terra di Calabria. Nel 2010 ci sono le elezioni regionali: sarebbe un bel modo di tentare di risalire la china, proponendo candidati limpidi e cristallini, evitando di illudere ancora una volta i calabresi. Ma ci vorrebbe pure una cittadinanza più attiva, meno “sensibile” alle sirene dei “politicanti” e ai richiami dei possibili vantaggi personali, più esigente di buona amministrazione, più consapevole che amministrando bene la cosa pubblica si cura meglio anche il proprio interesse.

E’ utopia? Non lo so. Ma per riscattarsi forse c’è di nuovo bisogno di sognare.   

(Sabato, 10 ottobre 2009)

Ancora una volta ci ritroviamo a piangere la perdita di nostri militari in missioni all’estero. Al dolore dei familiari e di tutto il paese si aggiunge quello dei parenti delle vittime civili afgane, di cui poco si parla ma che pagano pure loro e con pari dignità l’assurdo tributo di sangue alla violenza. Si proprio i civili, le persone comuni di ogni età, in tutti i teatri di guerra, simmetrica o asimmetrica che sia, sono le più indifese e quelle che, nel silenzio dei media, offrono il più grande sacrificio all’indistruttibile moloch della guerra.  La morte li sorprende inermi mentre si credono al sicuro nelle loro case, mentre vanno al mercato, mentre si recano sul posto di lavoro. Restano però soltanto numeri, non hanno un volto, né storie da essere raccontate. La brutalità subita resta un effetto collaterale anche nei resoconti di tv e giornali. Nessuno si ricorderà di loro, nessuno mai li considererà eroi. Eppure sono loro i veri eroi, perché continuano a voler vivere nonostante tutto intorno a loro parla di morte, perché vogliono essere normali quando di normale non c’è assolutamente niente, se non la stupidità delle armi.

(Sabato, 19 settembre 2009)

Ormai da qualche tempo nel nostro Paese i migranti sono considerati una minaccia, per noi, per la nostra sicurezza, per la nostra identità di popolo, per il nostro benessere, come se fossero venuti a portarci via qualcosa.
Questa che stiamo vivendo è una stagione livida, crudele, intollerante e piena di conflitti perché esclude dall'ordine giuridico, politico e sociale i diritti di alcune persone come i migranti.
La legge sulla sicurezza, approvata il 2 luglio scorso, fa apparire il migrante come un criminale rischiando così di trasformare un complesso evento sociale, come l'immigrazione, che deve essere gestito nel rispetto della dignità della persona e dei trattati internazionali, in un fenomeno criminale e delinquenziale.

Con questa legge sono stati introdotti:
- il reato di clandestinità: come se il clandestino che entra nel nostro paese fosse a priori un criminale;
- i centri d’identificazione ed espulsione: è aumentato il periodo di permanenza fino a sei mesi;
- i clandestini non potranno più accedere ai servizi pubblici perché chi svolge la funzione di pubblico ufficiale, ha l'obbligo di denunciare chi è senza documenti: tanti non andranno a curarsi, dai medici di base o all'ospedale e tanti bambini non andranno a scuola;
- per la registrazione all'anagrafe di qualunque atto: nascita, matrimonio ecc. è necessario il permesso di soggiorno, per cui il clandestino non andrà a denunciare la nascita del figlio e avremo tanti bambini invisibili;
- il permesso di soggiorno e l'acquisizione della cittadinanza italiana saranno a pagamento (da ottanta a 100 euro).
Questo in sintesi recita la legge. Il migrante in questa legge è considerato come un cittadino di seconda e terza categoria trattato senza alcun rispetto e senza diritti.
Forse abbiamo dimenticato che all'inizio del secolo scorso, molti nostri connazionali, parlo di tutta l'Italia, sono emigrati e per lo più erano clandestini (ed anche oggi c’è) verso le Americhe o i paesi del nord Europa, in cerca di una vita più dignitosa; erano famiglie intere, giovani in cerca di un futuro; tra di loro forse qualcuno che aveva problemi con la giustizia. Non tutti erano criminali anche se clandestini e nessuno dei paesi ospitanti, penso, li abbia mai considerati tali. E la storia sembra ripetersi, con la differenza che oggi siamo noi il paese ospitante.
In questi giorni ho sentito parole di giubilo, di soddisfazione, per questa legge, come se la sua approvazione risolvesse i problemi del nostro paese, dimenticando che le parole hanno un peso molte di esse incitavano all'odio, alla violenza e al razzismo: non ho sentito parole di accoglienza, di solidarietà e di condanna per come sono trattati i migranti (vedi respingimenti) da parte di coloro che si ergono a difesa della nostra fede e delle nostre radici cristiane.
Non ho sentito da parte di tutta la chiesa italiana, di tutti i fedeli cristiani, parole chiare e forti a difesa dei diritti e della dignità degli immigrati. Non possiamo dire mettiamo al centro della nostra pastorale la persona umana, gli ultimi e poi non spendere una parola per la persona del migrante. Non siamo credibili. Non ha senso.
"Ero forestiero e mi avete accolto" dice il Signore; tutti noi cristiani siamo obbligati a osservare quello che Gesù ha detto e la sicurezza non deve essere contro l'accoglienza del migrante, contro la dignità della persona. Papa Giovanni XXIII nel Maggio 1963 ha detto "Ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l'uomo perché tale e non solo i cattolici, a difendere anzitutto e dovunque i diritti della persona umana e non solo quelli della Chiesa Cattolica."
Non ho visto da parte dei cattolici che sono in parlamento il voto contrario a questa legge che, di fatto, viola diversi articoli della nostra Costituzione in modo particolare il 2°, il 3° e il 32° e diversi trattati internazionali come la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e la Convenzione dei diritti dell‘infanzia. Si rischia, continuando su questo percorso, di consegnare una massa di non cittadini a organizzazioni criminali che si "occuperanno" del loro alloggio, dei loro risparmi, della loro salute, dei loro bambini, rendendo più fragile e insicuro il nostro paese. A guardare bene, il nostro paese sta diventando provinciale, chiuso in se stesso e a poco a poco ci isolerà dal resto del mondo e mentre il mondo è ormai multietnico, noi rifiutiamo gli stranieri che ci mettono a contatto con culture ed etnie diverse, dimenticando che il popolo italiano è un miscuglio di etnie e culture ed è, dalle sue origini, multietnico. Tutti noi, penso, dovremmo interrogarci sul nostro futuro, sul futuro dei nostri figli e della nostra società. Vogliamo una società aperta al dialogo, accogliente, senza pregiudizi, solidale, pacifica, rispettosa delle persone o una società, egoista, capace solo di difendere i propri privilegi, i propri averi e di alzare barriere tra sé e gli altri? A noi la scelta.
Il futuro si costruisce nel presente con le scelte che siamo capaci di prendere e di attuare come persone, come cristiani e come società.

                                           Teresa Melissari 

(Giovedì, 27 agosto 2009)

Qualche sera fa ho avuto l’occasione di guardare il film “Il divo” di Paolo Sorrentino con Toni Servillo. Debbo dire che, prima della visione, ero abbastanza scettico sul fatto che si rappresentasse la storia di un persona così controversa come Giulio Andreotti la cui parabola umana non è ancora conclusa. Ma già dalle prime sequenze ho dovuto cambiare idea. Il film è bellissimo ed è interpretato magistralmente da un grandissimo Toni Servillo. Scorrono davanti agli occhi, come tanti flashback, le vicende più torbide della storia italiana recente. Dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro, alla P2, agli omicidi eccellenti di mafia. In questo intreccio il filo conduttore è la presenza quasi immanente del divo Giulio con il suo attaccamento al potere, ma anche con le sue debolezze umane, i sui tic, le sue emicranie, la sua solitudine, anche la sua insopprimibile angoscia per la tragica fine di Moro. Lui ha la piena consapevolezza del ruolo che gioca nella partita del potere e il film lo immortala nelle sue battute disarmanti e nella sua ironia pugnace. Esemplare a tal riguardo è il dialogo con Eugenio Scalfari. Quando, dopo una serie di domande pressanti e insinuanti del fondatore de “La Repubblica”, il divo Giulio gli rinfaccia il suo intervento per il salvataggio del gruppo “L’Espresso”dall’acquisizione da parte di Berlusconi e Scalfari ribatte che la faccenda è molto più complessa, allora Andreotti chiude il discorso dicendo che anche le questioni che il giornalista gli ha sollevato sono molto più complesse.

Il film apre la mente sugli  aspetti reconditi del potere, su quello che il volto televisivo dei potenti non ci comunica, una certa forma di cinismo dove il fine giustifica i mezzi, e quali mezzi! Proprio da questo punto di vista sono eccezionali i dialoghi del divo con il suo confessore e le sue personali considerazioni sulla necessità del male per garantire il bene, necessità di cui, secondo questa visione, anche Dio è consapevole.

A mio parere però la pellicola non esprime un giudizio sul personaggio. Lo spettatore è lasciato lì con le sue riflessioni e con la voglia immediata di rivederlo.

(Giovedì, 9 luglio 2009)

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adotta un bambino a distanza

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CHIESA EVANGELICA VALDESE


 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Di fronte alle crisi delle nostre vite una fonte di riparazione può diventare il ritorno in quei luoghi dove ci è possibile riscoprire chi siamo. Così fa Adelaide che, dopo una storia d'amore fallita, ritorna nella sua Val Germanasca dove ritrova Nanà che, in una dimensione di aiuto reciproco, la restituisce alla vita e all'amore. (30 agosto 2023)

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