di Grazia Naletto

L’Europa non ha futuro. Almeno a giudicare dalle conclusioni dell’incontro che si è svolto ieri tra i 28 capi di governo europei e il loro collega turco. Quello che qualche tempo fa Etiènne Balibar ha efficacemente definito il “fronte transnazionale del rifiuto dei rifugiati di cui i gruppi apertamente razzisti e violenti sono solo la punta estrema” sta esondando.

Vince condizionando le scelte politiche europee, ma anche conquistando un consenso crescente nell’opinione pubblica, sapientemente manipolata, a seconda dei momenti, a forza di annunci allarmistici, slanci di solidarietà pietistica ed emotiva e cinici bilanci sull’insostenibilità dei flussi migratori attuali.

Dalle comode e soffici poltrone degli uffici comunitari di Bruxelles è evidentemente impossibile mettersi nei panni delle migliaia di persone che sono bloccate al confine turco-siriano o alla frontiera greco-macedone, delle loro sofferenze e del loro legittimo diritto a immaginare un futuro diverso da quello che le aspetta sotto le bombe. In Siria, in Iraq, in Afganistan come in Libia.

Se le richieste turche di ieri saranno esaudite, nel prossimo vertice del 18 e 19 marzo, 6 miliardi di euro saranno messi a disposizione della Turchia, con l’obiettivo di fermare le migrazioni economiche in Europa trasformandola in un gendarme delle frontiere esterne, ma anche di promuovere uno scambio indecente tra i profughi siriani giunti in Grecia e quelli che si trovano in territorio turco.

Quella stessa Europa che è riuscita a realizzare circa 660 ricollocazioni sulle 160 mila previste vorrebbe varare un “programma volontario credibile di ammissione umanitaria con la Turchia”.

Quella stessa Europa che dichiara di voler mettere in primo piano il traffico di essere umani, esemplifica sin troppo bene, e nella forma più abominevole, il vero e proprio mercanteggiamento di vite umane fatto a Bruxelles, con l’illusione di “salvare Shengen” e ripristinare il suo completo funzionamento entro fine anno, considerato indispensabile per prevenire un definitivo scivolamento della crisi dell’euro.

6 miliardi non sono stati dati alla Grecia per accogliere in modo decente le 850mila persone che l’hanno raggiunta nel solo 2015: un numero di persone più di 10 volte superiore a quello che bastò all’italia per proclamare la cosiddetta “emergenza Nord-Africa” nel 2011.

6 miliardi sono quasi pari all’intero ammontare che l’Unione Europea ha stanziato nel ciclo di programmazione 2014-2020 a favore del Fondo di Sicurezza Interna (ISF) e del Fondo Asilo, Migrazioni e Integrazione (AMIF) a sostegno delle politiche dei paesi membri. Il primo ha l’obiettivo di supportare lo sviluppo di una strategia comune di sicurezza interna, la cooperazione tra le forze di polizia nazionali e la gestione delle frontiere esterne. Complessivamente è previsto uno stanziamento iniziale di 3,8 miliardi di euro.

Il secondo è finanziato con 3,137 miliardi di euro con l’obiettivo di promuovere una gestione efficiente dei flussi migratori e di sviluppare “un approccio comune all’asilo e alle migrazioni”. AMIF riunisce i precedenti fondi FEI (Fondo Europeo Integrazione), FER (Fondo Europeo per i Rifugiati) e RF (Fondo Europeo Rimpatri). Tra gli obiettivi prioritari individuati: il rafforzamento e lo sviluppo di un Sistema Comune Europeo di Asilo e l’applicazione uniforme della normativa europea in materia; il sostegno alle migrazioni “legali” compatibili con la domanda del mercato del lavoro e la promozione di programmi di inserimento sociale dei cittadini provenienti da paesi terzi; l’ulteriore implementazione dei programmi di rimpatrio dei migranti senza documenti; lo sviluppo della solidarietà interna nei confronti dei paesi maggiormente esposti ai flussi di migranti e di rifugiati e la produzione di dati e informazioni comparabili a supporto delle politiche comunitarie.

6 miliardi alla Turchia: un paese “terzo” che solo ora riscopre l’interesse ad entrare nell’Unione e che spicca per le violazioni dei diritti umani dei suoi cittadini, per le stragi di kurdi e per il suo più che probabile coinvolgimento nel commercio di petrolio con Daesh.

Tutto ciò per “spezzare il legame che esiste tra la traversata in mare e l’insediamento in Europa”. Che invece in questo modo si rinsalderà sulle stesse rotte o in rotte diverse a esclusivo vantaggio di quei “mercanti” che si dichiara di voler colpire continuando ad rinsanguare il Mediterraneo.

Non solo. L’accordo euro-turco legittima quei governi che hanno innalzato muri e barriere e sospeso Shengen cavalcando quel populismo e quel razzismo che stanno creando mostri ovunque in Europa e mettono a serio rischio le nostre democrazie.

Oggi i cittadini europei non hanno nulla da festeggiare: non c’è Shengen che tenga se si perde la bussola dei diritti. In Europa come in Italia. Primo tra tutti quello di vivere in pace.

(Articolo pubblicato su sbilanciamoci.org l'8 marzo 2016)

(Lunedì 14 marzo 2016)

“A noi resta solo la via stretta, qualche volta quasi introvabile, di accogliere ogni giorno come se fosse l'ultimo, e di vivere però nella fede e nella responsabilità come se ci fosse ancora un grande futuro davanti a noi. Pensare e agire pensando alla prossima generazione, ed essere contemporaneamente pronti ad andarcene ogni giorno, senza paura e senza preoccupazione: questo è l'atteggiamento che praticamente ci è imposto e che non è facile, ma tuttavia è necessario mantenere coraggiosamente”. (Dietrich Bonhoeffer)

(Domenica, 28 febbraio 2016)

Tredici anni fa, il 15 febbraio 2003, alla vigilia dell’attacco all’Iraq, più di venti milioni di persone inondarono le piazze di molte città del mondo per dire no alla guerra, no a tutte le guerre. Roma vide la manifestazione più grande, tre milioni di persone. Ancora una volta i governi, compreso quello italiano, non ascoltarono la voce dei cittadini. Per tredici anni abbiamo visto la guerra, il terrorismo, la violenza crescere nel mondo in una spirale che sembra senza fine. I cittadini dovrebbero oggi far sentire ancora più forte la voce della pace, e imporre ai governi di rispettare questa volontà. E’ possibile un mondo in cui gli uomini smettano di uccidersi, sta a tutti e ciascuno di noi costruirlo, certo non ci verrà regalato dai mercanti di morte né dalla politica che ne segue gli interessi. (Gino Strada)

(Lunedì, 15 febbraio 2016)

Domenico Quirico, l'inviato del quotidiano La Stampa di Torino rapito nel 2013 in Siria, dopo quasi tre anni è tornato a Aleppo. Il suo giornale ha appena pubblicato due suoi resoconti molto belli, dai quali traspare non solo la sofferenza di un popolo ormai allo stremo, ma anche il dolore personale, un dolore che poteva trovare una risposta solo ripercorrendo le strade dei luoghi dove il giornalista era stato privato della sua libertà, incontrando i volti delle persone che sono ancora incatenati dall'assurdità, dall'oscenità e dalla brutalità della guerra, laddove (ma lo si può dire per qualsiasi guerra del passato, del presente e del futuro) "Dio è stato confiscato per giustificare il delitto, gli uomini sono vinti dalla guerra e la guerra è cattiva perchè ha vinto gli uomini".  Riproponiamo qui sotto i suoi due articoli.

Quirico: “Io sulla strada della morte diretto nell’inferno di Aleppo”

Per le strade di Aleppo sgretolate dalla guerra. “Non ce ne andremo mai”

(Sabato 13 febbraio 2016)

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