Galati 3,26-29

Care sorelle, cari fratelli,

se il discorso della montagna (Matteo 5:3-12) o della pianura (Luca 6,20-38), che ci narrano le parole sulle beatitudini di Gesù e che, a buon ragione, sono considerate la carta d’identità del cristiano, questo breve passo è il capolavoro di Paolo.

E’ una sintesi mirabile di tutta la sua predicazione. Potremmo lasciarlo anche senza alcun commento tanto dovrebbe essere chiaro il suo significato.

E’ un testo rivoluzionario.

Peraltro, sono concetti che ritroviamo anche nell’epistola ai Romani che abbiamo appena ascoltato al capitolo 10, versetti da 9 al 13: 

“9 perché, se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato; 10 infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. 11 Difatti la Scrittura dice:
«Chiunque crede in lui, non sarà deluso».
12 Poiché non c'è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. 13 Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato.”

Paolo che non ha vissuto il periodo della vicenda umana di Gesù, che non è stato testimone diretto delle Sue parole. Lui che ha “incontrato" il Signore sulla strada tra Gerusalemme e Damasco, mentre addirittura si recava a punire i seguaci di Gesù, ora fa di Gesù il centro della sua vita e invita anche noi fare altrettanto.

Se non è una rivoluzione questa, quale altra può esserlo?

E’ un inno all’uguaglianza del genere umano. Paolo lo scrive con la passione che gli deriva per il suo amore verso Gesù, ma anche con grande slancio teologico.

Il cuore delle affermazioni di Paolo è evidente, è il rivestimento di Cristo.

Rivestirsi di Cristo significa cambiare non solo il proprio angolo visuale, ma anche la propria postura. Vuol dire accarezzare l’idea di un mondo dove non esistono più divisioni, dove le antiche separazioni non si scorgono più. 

Cristo è l’uomo nuovo e se noi ci rivestiamo di Lui anche noi assumiamo una dimensione nuova perché “voi tutti siete uno in Cristo Gesù”.

E qui che troviamo la chiave e le tracce per la nostra conversione. 

L’uomo vecchio non c’è più, sorge un uomo che prima non conoscevamo, un uomo non più preso e oppresso dal proprio ego ma disponibile (con un termine di natura psicoterapica) a disidentificarsi, che non vuol dire annullare la propria identità ma ad assumerla in un contesto di relazioni in cui ognuna e ognuno di noi può finalmente, non solo volgere lo sguardo in piena libertà verso l’altra e l’altro, ma assumere l’altrui sguardo come parte di se stesso, di se stessa.

La dimensione di questa unità non è tuttavia piatta e uniforme, ma è in grado di coinvolgerci in un più grande respiro, in una più grande varietà e molteplicità, è un caleidoscopio di colori, di sensazioni costantemente mutevoli.

E’ un vortice di bellezza.

Il fatto che noi non siamo più al centro del mondo, il prendere atto che il resto dell’umanità, pur nell’uguaglianza, non è come noi, come ognuno e ognuna di noi, che gli altri e le altre non pendono dalle nostre labbra e dalla nostra visione della vita, ma mantengono la loro dimensione unica e irripetibile non ci deve confondere, né tanto meno turbare, perché Gesù nella Sua peregrinazione sulle strade di Israele ha disegnato davvero una nuova umanità.

E ci ha detto che questa nuova umanità è possibile.

Un’umanità non più in bianco e nero, ma variopinta. 

Un’umanità in cui non ci sono più schiavi e padroni, ma solo di persone libere.

Un’umanità non più chiusa dentro i confini delle etnie e del sangue, ma di persone affratellate.

Un’umanità non più di uomini e di donne, ma di persone il cui genere non crea più separazione ma unità.

Tutto ciò lo possiamo avere a portata di mano, purché?

Purché ci rivestiamo integralmente di Cristo. 

Questa è la sostanza del messaggio di Paolo.

Non possiamo però non porci una domanda fondamentale.

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 28 gennaio 2024)

2 Corinzi 4,6-10

Care sorelle, cari fratelli,

i cinque versetti del capitolo 4 della 2^ lettera ai Corinzi, che abbiamo oggi di fronte, sono così densi di significato che anche letti da soli dovrebbero essere in grado di motivare e di rinnovare la nostra fede, restituendoci ragione della nostra vocazione.

Già, leggendo il solo versetto 6 non possiamo non notare l’assoluto parallelo con il magnifico prologo dell’evangelo di Giovanni nei cui versetti, da 1 a 13 del capitolo 1, troviamo scritto:   

1 Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. 2 Essa era nel principio con Dio. 3 Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. 4 In lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini. 5 La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno sopraffatta.
6 Vi fu un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni. 7 Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui. 8 Egli stesso non era la luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce. 9 La vera luce che illumina ogni uomo stava venendo nel mondo. 10 Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto. 11 È venuto in casa sua e i suoi non l'hanno ricevuto; 12 ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome, 13 i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d'uomo, ma sono nati da Dio.

La Luce, dunque, che risplende nelle tenebre, che spezza il buio,  che vince la notte, proprio come all’inizio del racconto della Genesi: 

“3 Dio disse: «Sia luce!» E luce fu. 4 Dio vide che la luce era buona; e Dio separò la luce dalle tenebre. 5 Dio chiamò la luce «giorno» e le tenebre «notte». Fu sera, poi fu mattina: primo giorno” (Genesi 1,3-5).

La Luce come elemento primordiale della creazione, come segno di separazione dall’oscurità. 

Questa Luce, sempre secondo il prologo del vangelo di Giovanni, già nel principio esisteva in Cristo.

Cristo è la nostra Luce, la lampada che illumina i nostri passi. 

Luce che non dobbiamo andare a ricercare lontano da noi, perché è già dentro di noi. Basta scrutare la nostra interiorità con fede e umiltà e la troveremo. 

Questa Luce, che scoviamo nel nostro intimo, è iscritta nei nostri cuori ed è già una manifestazione del Regno di Dio che aspettiamo.

“20 Interrogato poi dai farisei sul quando verrebbe il regno di Dio, rispose loro: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà: 21 "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi” (Luca 17, 20-21).

Quel “in mezzo a voi” è la traduzione delle parole greche “entòs umon”  che possono significare anche “dentro di voi”, come traduce la “Nuova Diodati”.

Il Regno di Dio, attraverso la Luce di Gesù Cristo, partecipa alla nostra vita sia perché, se siamo desiderosi di trovarlo, risiede nei nostri cuori (dentro di noi), sia perché, se abbiamo trovato quella Luce dentro di noi, poi possiamo condividerla con il resto dell’umanità (in mezzo a noi). 

Noi, attraverso la stessa Luce, partecipiamo alla venuta del Regno.

Siamo parte di un mistero insondabile e meraviglioso, di qualcosa che trasforma le nostre misere vite elevandole al cielo.

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 31 dicembre 2023)

Ecclesiaste 3,1-15

Care sorelle, cari fratelli,

che mistero il libro dell’Ecclesiaste, o del Qohelet! 

La presenza all’interno del canone ebraico e cristiano di questo libro provoca davvero interrogativi enormi. Ma, d’altro canto, i testi delle nostre Scritture generano sempre, ed a ogni lettura, domande sempre nuove alle quali come credenti siamo invitati a rispondere  interrogandoci a nostra volta.

Non dobbiamo scandalizzarci se non sempre riusciamo a comprendere sino in fondo il senso di ciò che leggiamo, l’importante è sempre e comunque porsi alla ricerca, non abbandonare il cammino, con l’assoluta e umile fiducia che il Signore saprà guidare i nostri passi sulla via del discernimento che, in ogni caso, sarà sempre parziale.

L’Ecclesiaste è proprio uno di quei libri problematici che sembra sfuggirti sempre dalle mani, ma forse proprio questa è la sua bellezza.

La sua ingestibilità ci consiglia di maneggiarlo con molta cura senza pervenire a soluzioni preconfezionate. 

Rientra nel novero dei libri sapienziali, ma opera un netto distacco dallo stile e dal linguaggio della sapienza dei Proverbi, del Cantico dei Cantici, di Giobbe.

Forse proprio per questo ha destato e desta un immenso fascino, che ha indotto innumerevoli studiosi, teologi, scrittori, anche non credenti, ad interessarsi di questo libro, a provare a capire qual è esattamente il suo posto all’interno della Bibbia Ebraica, ma soprattutto cosa intende dire a chi lo legge.

Scetticismo, pessimismo, disperazione, addirittura cinismo: sono questi i caratteri che molti autori hanno attribuito all’Ecclesiaste. Addirittura alcuni ne mettono in evidenza l’assenza di Dio, nel senso che Dio c’è nel testo ma è un Dio distante, imperturbabile, un Dio che non agisce nella storia degli uomini. 

E’ davvero così?

Certo ad una lettura disincantata del testo, saremmo portati a dare ragione a coloro che la pensano così. In effetti, in alcuni passaggi emerge la tentazione di condividerne anche la lettura pessimistica e disperante, lasciandosi andare ad una visione nichilista del senso delle parole dell’autore, che però sa fare anche un buon uso dell’ironia.

L’Ecclesiaste è peraltro un libro pieno di contraddizioni.

Anche per questo non è entrato nel canone biblico tanto agevolmente, ma oggi il suo testo è uno dei “Meghillot”, uno dei cinque rotoli che vengono letti pubblicamente durante alcune feste ebraiche. L’Ecclesiaste viene letto durante la festa della “Capanne” o “Sukkot” che ricorda la permanenza del popolo ebraico nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto.

Quindi l’Eccesiaste è un libro che “contamina le mani” come ogni altro libro della Bibbia Ebraica.

Come tale dobbiamo assumerlo e provare, dico solo provare, ad individuarne qualcuno tra i possibili sensi. 

Ma chi ne è l’autore?

Egli si presenta, al capitolo 1, versetto 1, come “figlio di Davide, re di Gerusalemme”.

Quindi, saremmo portati ad  intendere che si tratta del re Salomone. Un affascinante commento midrashico dice che Salomone avrebbe scritto da giovane il Cantico dei cantici, da uomo maturo il libro dei Proverbi e, nella sua disincantata vecchiaia, proprio il libro del Qohelet.

Ma tutti gli studi più approfonditi sono d’accordo nell’attribuire il testo ad un aristocratico “predicatore”, ad un “raccoglitore” vissuto tra il II° e il III° secolo a.C., in piena epoca ellenistica. 

In effetti, Ecclesiaste significa proprio “predicatore” e Qohelet deriva dalla parola ebraica “Qol” che significa voce. 

L’Ecclesiaste è proprio una predica, la voce di un predicatore rivolta all’Assemblea. 

Prima di passare al nostro testo di questa domenica, è però interessante tracciare, in un rapido quadro, i temi che l’autore affronta nel suo scritto. 

Tutto libro è pervaso dalla riflessione sulla “vanità”. Esordisce al capitolo 1, versetto 2, con “vanità delle vanità, tutto è vanità”. 

Il senso del vivere è racchiuso all’interno dell’assoluta vanità delle azioni umane, ma la vita, se vuole sconfiggere questa vanità deve sempre volgersi al timore di Dio.

Entrando nel merito del nostro testo, possiamo suddividerlo in due parti: la prima dai versetti dall' 1 all’ 8 e poi i versetti dal 9 al 15.

La prima parte è un vero e proprio poema che si può leggere in parallelo a quello del capitolo 1 dal versetto 2 all’11:

“2 Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
3 Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole? 4 Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre. 5 Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo. 6 Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri. 7 Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre. 8 Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire. 9 Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole. 10 C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto. 11 Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.” 

In questi versetti del 1° capitolo l’Ecclesiaste ci pone di fronte all’immutabilità della creazione. Tutto, nel disegno di Dio, è funzionale alla sussistenza della terra. Tutti gli elementi hanno il loro ciclo vitale per assicurare la vita del pianeta. 

Si generano e si rigenerano, in un moto circolare continuo che non conosce sosta e che è indipendente da qualsiasi volontà umana.

Certo oggi potremmo dire che l’uomo è arrivato ad un livello così alto, e talvolta distruttivo, di conoscenze scientifiche e tecnologiche che è anche in grado di condizionare pesantemente il ciclo vitale degli elementi.

Il riscaldamento globale è infatti una delle più grandi preoccupazione dei cittadini e delle cittadine.

Ma, l’Ecclesiaste ci mette in guardia: l’uomo pensa di essere il padrone dell’universo, ma anche questa presunzione, potremmo dire, è vanità della vanità. 

Al di sopra dell’uomo c’è la sovranità di Dio che governa l’alternarsi degli elementi, il ciclo della vita della Terra.

L’uomo non riuscirà mai ad arrogarsi il diritto di alterare la creazione buona di Dio, perchè in questa creazione c’è un ordine immodificabile che non è a disposizione dell’uomo.

L’uomo potrà continuare ad inquinare, a fare guerre, a distruggere l’ambiente che lo circonda, ma la creazione di Dio è inscalfibile. 

Questa creazione resisterà anche alla malvagità dell’uomo, alla mancanza di cura per i suoi simili, al suo egoismo.

La storia del diluvio ce l’ho insegna: “..Io non maledirò più la terra a cagione dell'uomo, poiché i disegni del cuor dell'uomo sono malvagi fin dalla sua fanciullezza; e non colpirò più ogni cosa vivente, come ho fatto. 22 Finché la terra durerà, sementa e raccolta, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte, non cesseranno mai” (Genesi 8,21-22).

Confrontando i due poemi del capitolo 1 con il nostro del capitolo 3, è evidente che l’Ecclesiaste pone un distacco tra ciò che è governato da Dio e ciò che può essere gestito dalle mani dell’uomo.

Nel versetti di questa domenica, c’è il nostro spazio, lo spazio delle nostre vite, delle nostre scelte.

Ed è significativo che la nostra liturgia ci propone questo testo a conclusione dell’anno e in prospettiva all’anno nuovo.

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 26 novembre 2023)

2 Pietro 3,3-13

Care sorelle, cari fratelli,

proviamo all’inizio di questa meditazione di inquadrare il contesto nel quale la 2^ lettera di Pietro fu redatta.

Anzitutto, è ormai opinione concorde che la lettera non fu scritta da Pietro, l’apostolo di Gesù, anche se nello scorrere del testo l’autore ne rivendica la provenienza. Si tratta, con molta probabilità, di un caso di pseudoepigrafia, cioè di un testo scritto da qualcuno che ne intesta l’origine ad un altro autore ben più conosciuto ed autorevole.

Oggi come oggi ciò sarebbe considerato un plagio e anche una grave forma di violazione del diritto di autore. Ma, come sappiamo anche per quanto riguarda l’origine di tanti testi biblici, nei tempi passati questo atteggiamento era considerato normale. 

Un discepolo anche non proprio contemporaneo di un profeta o di un personaggio autorevole (come, per esempio, è avvenuto nel caso del libro del profeta Isaia che può essere scomposto in tre autonomi scritti ormai ben individuati a seconda dell’epoca di scrittura e anche dello sviluppo della teologia negli stessi delineata), prosegue l’opera del suo mentore intestatogli scritti che acquistano autorevolezza proprio per il riferimento alla medesima autorevolezza dello scrittore a cui sono formalmente ricondotti.   

E’ anche il caso della nostra 2^ lettera di Pietro. 

Ciò, si evince dal suo contenuto per il fatto che dice testualmente nel nostro versetto 4 che “i padri si sono addormentati” (quindi si ritiene che l’apostolo Pietro fosse già morto) e dalla notevole distanza dai contenuti e dalla teologia della 1^ lettera di Pietro (anch’essa peraltro probabilmente pseudoepigrafica).

Siamo di fronte ad un testo del 2° secolo d.C. il cui autore conosceva bene la lettera di Giuda di cui riprende molti dei contenuti.

Anche l’inserimento nel canone non ha avuto un consenso unanime, ma poi  Atanasio la incluse negli elenchi della 39^ lettera pasquale dell’anno 367 che ebbe un valore normativo. 

La 2^ lettera di Pietro è pervasa da una profonda preoccupazione. La chiesa è attraversata da tendenze gnostiche ed ereticali che negano la realtà di un ritorno del Signore.

Come già detto, siamo nel 2^ secolo, i Padri (ossia i primi testimoni della venuta di Gesù) sono ormai morti e si cerca di insinuare nei credenti la convinzione che la promessa del ritorno del Signore sia vana.

Molti di questi gruppi sostenevano che la vita nuova si verificasse già con il solo battesimo e che quindi non ci fosse più niente da aspettare.

La 2^ lettera di Pietro, con toni anche molto aspri, e la chiesa intraprendono una dura battaglia contro l’influsso di queste opinioni, provando a mantenere ferma la validità della promessa: Gesù Cristo tornerà nella gloria e aprirà le porte ad un mondo nuovo, ad una vita nuova all’insegna della giustizia e della pace.  

Per sostenere l’attualità della promessa della “parusia”, l’autore richiama nel testo dei nostri versetti alcuni passaggi biblici del primo e del nuovo testamento, mentendo in luce la smemoratezza volontaria degli oppositori.

Il mondo fu creato attraverso la parola di Dio, la stessa parola provocò la distruzione del mondo una prima volta, e sempre la stessa parola mantiene il mondo in cui ancora noi oggi viviamo.

C’è quindi un richiamo alla creazione e poi al diluvio universale narrato in Genesi nei capitoli da 6 a 8. 

Fermiamoci su alcuni aspetti di questo racconto.

Al versetto 10 del capitolo 7 di Genesi c’è scritto: “10 Trascorsi i sette giorni, le acque del diluvio vennero sulla terra”. 

Non ci viene detto però da quale giorno trascorsero gli ulteriori sette, ma se torniamo ai versetti da 5 a 9 dello stesso capitolo 7 troviamo: 

“5 Noè fece tutto quello che il SIGNORE gli aveva comandato.
6 Noè aveva seicento anni quando il diluvio delle acque inondò la terra. 7 Noè, con i suoi figli, con sua moglie e con le mogli dei suoi figli, entrò nell'arca per scampare alle acque del diluvio. 8 Degli animali puri e degli animali impuri, degli uccelli e di tutto quello che striscia sulla terra, 9 vennero delle coppie, maschio e femmina, a Noè nell'arca, come Dio aveva comandato a Noè.”

Possiamo dedurre quindi che i sette giorni partono da quando Noè con la sua famiglia  e con gli animali entrarono nell’arca. 

I giorni sono sette come quelli della creazione. E’ chiaro che ci viene detto che con il diluvio l’intento di Dio fu quello di realizzare una nuova creazione, una rigenerazione del genere umano che era arrivato ad una condizione estrema di corruzione e di degrado. 

“11 Or la terra era corrotta davanti a Dio; la terra era piena di violenza. 12 Dio guardò la terra; ed ecco, era corrotta, poiché tutti erano diventati corrotti sulla terra” (Genesi 6,11).

Ma di fronte a tutta quella violenza, Dio comunque adottò un criterio  assoluto di salvezza: la giustizia.

“7:1 Il SIGNORE disse a Noè: «Entra nell'arca tu con tutta la tua famiglia, perché ho visto che sei giusto davanti a me, in questa generazione” (Genesi 7,1).

Noè fu ritenuto dal Signore giusto e perciò gli fu concesso di salvarsi insieme alla sua famiglia. 

Giusto è chi opera nella giustizia e nell’amore, e la giustizia è richiamata nell’ultimo versetto del nostro testo come qualità dei nuovi cieli e della nuova terra che aspettiamo di abitare secondo la promessa del Signore.

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 22 ottobre 2023)

Marco 10,2-16

Care sorelle, cari fratelli,

il testo propostoci per questa domenica può essere scomposto in due parti: i versetti da 2 a 12 e poi quelli da 13 a 16.

Due parti che sembrano non sfiorarsi e appartenere a due dimensioni diverse. 

Anche la versione della Bibbia Nuova Riveduta, dalla quale abbiamo letto il nostro passo li separa: i versetti da 2 a 12 sono riportati sotto il titolo “Il ripudio” quelli da 13 a 16 sotto quello di “Gesù benedice i bambini”.

Quale può essere allora la logica secondo la quale il nostro lezionario ce li fa leggere insieme?

Proviamo a scoprirla.

Andiamo all’inizio del capitolo 10. Il primo versetto ci dice che “Gesù partì di là e se ne andò nei territori della Giudea e oltre il Giordano”. 

Facendo un breve escursione nel capitolo 9 dell’Evangelo di Marco poi possiamo capire che Gesù partì da Cafarnao, in Galilea, dove aveva avvertito duramente i discepoli di non fare a gara su chi fosse il più grande e sulla necessità di evitare gli scandali. 

Infatti, il capitolo si chiude con le famose e paradossali invettive di Gesù sulla necessità di rinunciare persino ad una mano, ad un piede e a un occhio, se sono causa del proprio peccato, perché è meglio entrare con una sola mano, con un solo piede o con un solo occhio nel regno di Dio che avere due mani, due piedi o due occhi ed essere gettato nella Geenna, cioè nel fuoco inestinguibile. 

La Geenna era la valle di Gerusalemme usata come discarica per i rifiuti della città, dove a scopo anche igienico ardeva sempre il fuoco. Quindi era compresa come un simbolo di perdizione.

Quindi, Gesù dalla Galilea si era recato in Giudea e nei territori della Giudea oltre il Giordano. Lì insegnava come era solito fare e le persone radunate lo ascoltavano.

Arrivarono però dei farisei che provarono a metterlo in difficoltà con una domanda a trabocchetto sul ripudio della moglie da parte del marito. 

“E’ lecito a un marito mandare via la moglie”?

Gesù, come sempre, non si scompone e richiama le Scritture per dare una risposta inequivocabile alla domanda.

In Deuteronomio 24,1 c’è scritto: 

“Quando un uomo sposa una donna che poi non vuole più, perché ha scoperto qualcosa di indecente a suo riguardo, le scriva un atto di ripudio, glielo metta in mano e la mandi via.”

Questo atto di ripudio è un libello, chiamato ghet, che il marito consegnava alla moglie, ed è costituito da un testo scritto  in modo abbastanza semplice.

Vi sono indicati la data e il luogo, e quindi che il tal uomo con quell’atto divorzia da sua moglie, alla quale, da allora, è permesso risposarsi.

Praticamente il divorzio si compie proprio quando il marito dà alla donna il ghet.

Gesù, quindi, risponde ai farisei “è per la durezza del vostro cuore che Mosè scrisse per voi quella norma”.

Questo perché il libello di ripudio consisteva in un atto di giustizia nei confronti della donna che subiva il divorzio. In una società estremamente patriarcale, il marito avrebbe potuto lasciare la moglie per un qualsiasi pretesto abbandonandola a se stessa e al proprio destino di miseria e di esclusione sociale.

Sappiamo benissimo che una donna senza marito, ma anche una vedova, era esposta a ogni disagio materiale, morale e civile. Diventava priva di ogni diritto e probabile vittima di chi desiderasse solo sfruttarla.

I testi biblici hanno infatti una continua attenzione per le vedove e per le persone più deboli.

Anche l’atto di ripudio esprime questa attenzione ridonando alla donna la sua dignità, perché le consentiva pure di risposarsi.

Risposarsi poteva significare acquisire di nuovo sicurezza e dignità in mezzo alla comunità.

Ecco perché Gesù dice “è per la durezza del vostro cuore che Mosè scrisse per voi quella norma” . 

La norma del Deuteronomio impediva, quindi, al marito di agire in un modo assolutamente arbitrario e lo costringeva a formalizzare il divorzio da sua moglie.

Nel periodo del Primo Tempio anche i mariti che partivano per la guerra spesso lasciavano alle proprie mogli un ghet per liberarle, in caso risultassero dispersi, dall’obbligo di non risposarsi.

La durezza del cuore di molti maschi, che talvolta tentavano persino di invalidare il ghet, era temperata dunque dalla norma sull’atto ripudio.

Gesù però non si ferma qui e ritorna alla Genesi dove è scritto che Dio ci creò maschio e femmina. 

“ma al principio della creazione Dio li creò maschio e femmina.  Perciò l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una sola carne. Così non sono più due, ma una sola carne. L'uomo, dunque, non separi quel che Dio ha unito”.

Come possiamo leggere questi versetti senza cadere in un bigotto moralismo?

Tutto va ancorato alla infinita misericordia e al senso di giustizia di Dio, secondo anche quanto troviamo scritto nei versetti successivi:

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adotta un bambino a distanza

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CHIESA EVANGELICA VALDESE


 
 

 

 

 

 

 

 

 

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