Care sorelle, cari fratelli,
se il discorso della montagna (Matteo 5:3-12) o della pianura (Luca 6,20-38), che ci narrano le parole sulle beatitudini di Gesù e che, a buon ragione, sono considerate la carta d’identità del cristiano, questo breve passo è il capolavoro di Paolo.
E’ una sintesi mirabile di tutta la sua predicazione. Potremmo lasciarlo anche senza alcun commento tanto dovrebbe essere chiaro il suo significato.
E’ un testo rivoluzionario.
Peraltro, sono concetti che ritroviamo anche nell’epistola ai Romani che abbiamo appena ascoltato al capitolo 10, versetti da 9 al 13:
“9 perché, se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato; 10 infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. 11 Difatti la Scrittura dice:
«Chiunque crede in lui, non sarà deluso».
12 Poiché non c'è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. 13 Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato.”
Paolo che non ha vissuto il periodo della vicenda umana di Gesù, che non è stato testimone diretto delle Sue parole. Lui che ha “incontrato" il Signore sulla strada tra Gerusalemme e Damasco, mentre addirittura si recava a punire i seguaci di Gesù, ora fa di Gesù il centro della sua vita e invita anche noi fare altrettanto.
Se non è una rivoluzione questa, quale altra può esserlo?
E’ un inno all’uguaglianza del genere umano. Paolo lo scrive con la passione che gli deriva per il suo amore verso Gesù, ma anche con grande slancio teologico.
Il cuore delle affermazioni di Paolo è evidente, è il rivestimento di Cristo.
Rivestirsi di Cristo significa cambiare non solo il proprio angolo visuale, ma anche la propria postura. Vuol dire accarezzare l’idea di un mondo dove non esistono più divisioni, dove le antiche separazioni non si scorgono più.
Cristo è l’uomo nuovo e se noi ci rivestiamo di Lui anche noi assumiamo una dimensione nuova perché “voi tutti siete uno in Cristo Gesù”.
E qui che troviamo la chiave e le tracce per la nostra conversione.
L’uomo vecchio non c’è più, sorge un uomo che prima non conoscevamo, un uomo non più preso e oppresso dal proprio ego ma disponibile (con un termine di natura psicoterapica) a disidentificarsi, che non vuol dire annullare la propria identità ma ad assumerla in un contesto di relazioni in cui ognuna e ognuno di noi può finalmente, non solo volgere lo sguardo in piena libertà verso l’altra e l’altro, ma assumere l’altrui sguardo come parte di se stesso, di se stessa.
La dimensione di questa unità non è tuttavia piatta e uniforme, ma è in grado di coinvolgerci in un più grande respiro, in una più grande varietà e molteplicità, è un caleidoscopio di colori, di sensazioni costantemente mutevoli.
E’ un vortice di bellezza.
Il fatto che noi non siamo più al centro del mondo, il prendere atto che il resto dell’umanità, pur nell’uguaglianza, non è come noi, come ognuno e ognuna di noi, che gli altri e le altre non pendono dalle nostre labbra e dalla nostra visione della vita, ma mantengono la loro dimensione unica e irripetibile non ci deve confondere, né tanto meno turbare, perché Gesù nella Sua peregrinazione sulle strade di Israele ha disegnato davvero una nuova umanità.
E ci ha detto che questa nuova umanità è possibile.
Un’umanità non più in bianco e nero, ma variopinta.
Un’umanità in cui non ci sono più schiavi e padroni, ma solo di persone libere.
Un’umanità non più chiusa dentro i confini delle etnie e del sangue, ma di persone affratellate.
Un’umanità non più di uomini e di donne, ma di persone il cui genere non crea più separazione ma unità.
Tutto ciò lo possiamo avere a portata di mano, purché?
Purché ci rivestiamo integralmente di Cristo.
Questa è la sostanza del messaggio di Paolo.
Non possiamo però non porci una domanda fondamentale.
Ma è utopia, é la prefigurazione della vita nuova che ci aspetta dopo la morte, o è qualcosa che possiamo già pregustare qui e ora?
A guardare lo stato e lo stile delle nostre vite, dei nostri conflitti, allargando la panoramica a ciò che succede nel mondo non possiamo che rimanere sconfortati e frustrati di fronte al messaggio universale di Paolo.
Ognuna, ognuno di noi può affermare di sentirsi rivestita, rivestito di Cristo, anche le più grandi guide spirituali credono di esserlo.
Però ancora si combattono guerre e conflitti in nome della propria investitura, del proprio rivestimento di Cristo.
Io sono più rivestito di te e allora tu o ti sottometti o devi perire.
Anche nel panorama delle diverse confessioni cristiane si avverte ancora questa grande separazione.
E così nel nostro egocentrismo coltiviamo e adoriamo la più grande idolatria.
Allora come ne possiamo uscire?
C’è un modo perché questo rivestirsi di Cristo non si trasformi in una corazza inespugnabile, ma sia il mezzo con il quale avvicinarci al fratello e alla sorella nella consapevolezza che i vecchi steccati non hanno più ragione d’essere perché Cristo li ha distrutti.
Nell’epistola ai Filippesi, al capitolo 2, versetti da 5 a 7, leggiamo:
“5 Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, 6 il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, 7 ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini.”
Gesù, pur mantenendo la sua natura divina, si è però svuotato della sua deità, del suo essere uguale a Dio.
Non ha voluto guardarci dall’alto in basso, non è stato geloso della sua condizione primigenia.
Ogni orgoglio in Lui è cessato nel momento stesso in cui ha assunto la nostra condizione umana.
Ha preso la forma del servo e si è fatto uomo.
La forma del “servo”.
Quella del “Servo” è quindi la dimensione che Gesù ha assunto nella sua vita terrena.
“Servo” è la condizione di chi è sottomesso ad altre persone.
Gesù ha scelto di essere servo, ha scelto di sottomettersi: poteva benissimo non farlo.
Ma la sua testimonianza avrebbe perso slancio, avrebbe perso credibilità. Invece, ponendosi sullo stesso piano degli uomini e delle donne del Suo tempo ha dato una testimonianza verace, efficace.
Un Dio che si fa uomo e che si riveste per intero di umanità, che cede alla violenza di altri esseri umani, che subisce la loro protervia, per rimanere coerente e fedele Suo Padre, a se stesso e agli altri uomini, che non nasconde le sue debolezze, che soffre come qualsiasi persona che viene al mondo: è questo il più grande dono che Dio stesso ci ha fatto.
E Gesù si è svuotato, ha lasciato cadere la Sua “corazza” di figlio di Dio, per farci capire che anche noi dobbiamo liberarci delle nostre corazze.
Grazie a questo svuotamento è poi risorto il terzo giorno, per farci toccare la Sua gloria.
In Giovanni 17,20-26, nella cosiddetta preghiera sacerdotale di Gesù leggiamo:
“20 Non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 21 che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. 22 Io ho dato loro la gloria che tu hai data a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 23 io in loro e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li hai amati come hai amato me. 24 Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché vedano la mia gloria che tu mi hai data; poiché mi hai amato prima della fondazione del mondo. 25 Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 26 e io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, e io in loro”.
Ritroviamo ancora il tema dell’unità.
Gesù prega il Padre affinché tutte e tutti possiamo diventare una cosa sola.
Perciò Paolo nel nostro passo di questa domenica ci dice che in Cristo non ci sono più differenze, perché se siamo una cosa sola con lui è evidente che non ci sono più paletti, scompaiono muri e frontiere personali e geografiche, perché ogni cosa è ricondotta all’origine, cioè a Dio.
Tutto questo può avvenire però se siamo rivestiti di Cristo e poiché Cristo si è svuotato, per rendersi simile a noi, anche noi allora dobbiamo svuotarci di ogni nostro orgoglio, di ogni nostra pretesa di superiorità.
Rivestirsi di Cristo, significa indossare la Sua umiltà, vuol dire rivestirsi della Sua umanità.
Ci rivestiamo di Cristo, come Cristo si è rivestito di noi.
E la parte che Cristo ha scelto di noi non è l’orgoglio, la gelosia, il potere, la violenza. No, ha scelto ciò che per la maggior parte degli uomini è stoltezza: ossia la nostra debolezza.
Attraverso la Sua debolezza ci ha liberati da ogni nostra pretesa, da ogni nostro egocentrismo.
Decentrarsi da noi stessi per avere lo sguardo rivolto esclusivamente verso il nostro Salvatore.
E’ questa l’autentica libertà.
Solo attraverso questa libertà, che Gesù ci ha donato per mezzo della Sua passione e morte, possiamo vivere come donne e uomini nuovi alla luce della Sua resurrezione.
Ora possiamo anche ritornare sulla domanda che ci siamo posti prima, cioè se il messaggio di Paolo ci pone di fronte ad un’utopia, alla prefigurazione della vita nuova che ci aspetta dopo la morte, o a qualcosa che possiamo già pregustare qui e ora.
Non possiamo che rispondere che tutte le risposte hanno una loro coerenza e validità.
Certo è un’utopia, ma le utopie ci consentono di guardare avanti e di camminare verso orizzonti più belli e più ampi, sempre guidati dallo Spirito del Signore. Diceva Carlo Maria Martini che “l'utopia è importante: solo quando hai una visione lo Spirito ti innalza al di sopra di meschini conflitti”.
E’ certamente la prefigurazione della vita nuova che ci aspetta dopo la morte, perché sarà proprio così.
Ma è anche qualcosa che possiamo già pregustare qui e ora.
A condizione di svuotarci, come ha fatto Gesù per noi, a condizione di intraprendere giorno dopo giorno, nonostante ogni nostra caduta, un cammino nuovo che ricalchi i Suoi passi, a condizione di abbandonare ogni nostro orgoglio e riposare esclusivamente in Lui.
Però non dobbiamo e non possiamo nasconderci, per una semplice onestà intellettuale.
Sappiamo che provare a vivere, secondo il messaggio di Paolo, richiede una grande lotta interiore, l’educazione della volontà e l’allenamento della capacità di credere che non possiamo poggiare esclusivamente sulle nostre forze, perché non ce la faremmo mai, ma di abbandonare ogni nostro anelito e anche ogni nostra speranza in Colui che ci ama più di tutti e che ci ha amato per primo.
Che la nostra comune fede quali discendenti di Abraamo ed eredi della stessa promessa, l’aiuto dello Spirito in cui tutte e tutti noi confidiamo, ci aiuti a vincere questa fondamentale lotta spirituale e farci avere qui sulla terra un anticipo della pienezza cui siamo comunque destinati nei cieli.
Amen.
(Venerdì, 13 giugno 2025)